martedì 3 settembre 2019

Pizza con farina integrale? Assolutamente no!



Noi italiani, nel paese con la più ampia scelta alimentare, la migliore cucina al mondo, la culla della dieta mediterranea, stiamo perdendo il rapporto che abbiamo sempre avuto con il cibo.
Come ben descritto nel libro del professore Marino Niola (Homo dieteticus, Il Mulino) stiamo vivendo una sorta di omologazione culturale che nasce dal convincimento che l’uso (o la privazione) di alcuni alimenti possano avere un riflesso diretto sulla salute del nostro organismo; in poche parole, abbiamo diviso gli alimenti in buoni e cattivi con una visione acriticamente manichea che di fatto ha abolito la gioia del cibo, l’attesa dei tempi stagionali, il rapporto completo con tutto ciò che è edibile e potabile; è nato l'Homo Pharmacaeticus.
L’essere umano è l’unico, tra gli animali, a potersi definire "buongustaio" perchè sceglie, prepara, cuoce il cibo in varie modalità, perché arricchisce il sapore degli alimenti a proprio piacimento spesso migliorandone non solo le caratteristiche organolettiche, ma anche quelle nutrizionali, purtroppo, invece, assistiamo alla triste tendenza verso una visione farmacologica degli alimenti e quindi alla omologazione dei prodotti, sparizione di intere specie, appiattimento dei gusti, monoculture, gogne mediatiche per intere filiere alimentari.
Una rincorsa ossessiva nella quale una moda si succede all’altra in maniera assolutamente inutile (visto che aumentano le patologie oncologiche), si è perso il rapporto con la produzione del cibo e con l’equilibrio sano che ciascuno di noi dovrebbe avere quotidianamente con quello che mangiamo, e tutto a vantaggio della grande industria alimentare, che spinge e prospera sulle nostre compulsioni.
Una vittima di questa tendenza è la pizza napoletana, attaccata dai talebani dell’integrale, insieme al pane, ai cornetti, ai grissini, alle fette biscottate. Le multinazionali del cibo hanno steso una nuova lista dei cibi canaglia, quasi tutti bianchi: zucchero raffinato, farina 00, sale, latte e magari anche burro.
L’uomo ha impiegato secoli di studio e di ricerche per riuscire a realizzare alcune delle preparazioni più buone e celebrate proprio con quei cibi: che ne sarebbe di tantissimi dolci come il babà? Non potremmo mai mangiare un piatto di tagliatelle emiliane, il pane di Matera e neanche, ovviamente, una fetta di pizza napoletana, ossia il prodotto più alto che l’ingegno umano ha ottenuto dall’equilibrio tra farina, acqua, lievito e condimento.
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Babà al rum
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Tagliatelle emiliane
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Pane di Matera
        Ci sono poi i mantra diffusi da una informazione spesso moltiplicatrice di luoghi comuni: il lievito madre tanto più prodigioso quanto più vecchio è (ma perché? I lieviti sono lieviti, muoiono e si rinnovano continuamente e quelli che agiscono sono quelli vivi), la cottura a legna, dannosa nonostante sia la più diffusa dalla conoscenza del fuoco in poi, la necessità che ci sia farina integrale perché un cibo sia sano, anche la pizza.
Si tratta di un cumulo di sciocchezze enormi, come dimostra la prima pubblicazione scientifica sulla pizza pubblicata dall’Università Federico II dai professori Paolo Masi e Annalisa Romano in collaborazione con il pizzaiolo Enzo Coccia (La pizza napoletana... più di una notizia scientifica sul processo di lavorazione artigianale - 2015).
L’esperta, la professoressa Paola Vitaglione, ricercatrice in Nutrizione Umana nel Dipartimento di Agraria di Napoli Federico II, appositamente invitata a tenere la sua relazione scientifica, ha tra l’altro sostenuto che gli apporti di fibra contenuti in una pizza integrale, sono solo il 4% di quelli settimanali consigliati. Sono quindi irrilevanti rispetto ad altre fonti alimentari. 
Allora dopo aver mangiato una bella pizza tradizionale, una fettina di ananas ci fornirà tutte le fibre che vogliamo, senza uccidere un prodotto in nome di una supposta nocività.
Non ci si sofferma sul fatto che la farina integrale, quando non è certificata biologica (e i parametri europei sono stati di molto allargati a sfavore della salute e favore delle multinazionali) è la più tossica di tutte perché è lì che si concentrano i concimi chimici, nella pula, basta ragionare.
E se l’uomo si è sforzato di eliminarla dalla farina il motivo è proprio questo, avere un prodotto di qualità superiore. Invece le multinazionali del gusto, sempre pronte alle inversioni di marcia e coadiuvate da compiacenti nutrizionisti o sedicenti tali, ci spiegano che bisogna usare l’integrale.
Il motivo è semplice: l’uso di questa farina fa diventare tutte le pizze eguali, togliendo ogni specificità a quella napoletana e concede spazio a chi l’arte di definirsi “pizzaiolo” non la possiede, un po’ come Cracco che propone una sua pizza, magari con ingredienti selezionatissimi (per giustificarne il prezzo alto), ma che pizza non è.
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La cosiddetta "Pizza Margherita" di Cracco

Inoltre c’è un disciplinare Stg che ha oltre 30 anni, ed è l’unico al mondo. Per cui quando si parla di pizza napoletana si deve fare riferimento a quello, il resto sono opinioni. Quel testo è stato scritto in accordo tra le più importanti famiglie di pizzaioli ed è frutto di una esperienza secolare a cui si deve rispetto perché chi calpesta la memoria non ha futuro come ci insegnano i francesi
Allora, via la farina integrale dalla pizza napoletana, pretendiamo, per avere un prodotto di livello mondiale, che la farina sia di tipo 00, e verifichiamo che siano stati usati buoni pomodori (Sanmarzano), ottimi oli (possibilmente del Sud, più leggeri e profumati), straordinari latticini (mozzarella di bufala campana o fiordilatte di Agerola), il resto sono solo mode che si diffondono per esserci in qualche modo. 
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Questa è una "Pizza Margherita"

Perché questo fa la differenza tra l’uomo e un pollo che mangia chicchi sani: il primo si gode la pizza artigianale, il secondo viene spennato da  finti sacerdoti del salutismo al servizio delle multinazionali.

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