sabato 20 dicembre 2014

Mezze maniche con mazzancolle ai pomodorini di Corbara

Tra le innumerevoli specie ittiche, i crostacei sono talmente gustosi e dolci da essere delle vere e proprie delizie del mare, apprezzate in cucina per le carni tenere, ma non molli, e per il sapore delicatissimo.
La mazzancolla appartiene alla famiglia dei gamberi autoctoni del Mar Mediterraneo, ha una colorazione biancastra tendente al rosa o al grigio, alternata a bande marroni-rossastre sul carapace e segmenti addominali e macchie scure sulle pleure. 
La sua carne è pregiata, con sapore delicato e con aroma gradevole e fine. Contiene circa il 15% di proteine, mentre basse sono le percentuali di glucidi e di grassi. Per la scarsa presenza di grassi, è modesto anche l'apporto energetico, che resta al di sotto delle 100 chilocalorie. 
È considerevole invece l’apporto di fosforo, calcio, ferro e le vitamine del complesso B tiamina, riboflavina e niacina. Il contenuto di colesterolo si aggira invece sui 150 mg per 100 grammi. 
La preparazione che propongo è classica, ma arricchita di sapori unici, come quello del Pomodorino di Corbara, il "Corbarino" dalla caratteristica bacca piccola, allungata a pera, dolce e pungente di sapore.
Di origini antiche e coltivato in maniera tradizionale, cioè irrigato se non quando lo decide il clima della Campania, è un'eccellenza alimentare per la regione e in special modo per Corbara, un antico paese arroccato sui Monti Lattari in provincia di Salerno, affacciato su quel dono della Natura che è l’Agro nocerino sarnese, patria del più noto Pomodoro San Marzano. 
E' il re del pomodoro, il miglior interprete della pummarola e l’ospite per eccellenza di pasta e pizza.

Per questa preparazione semplicissima ci procuriamo (quattro persone):
  • 280 gr di mezze maniche o pasta di vostra scelta (di Gragnano)
  • 20 mazzancolle freschissime, sgusciate e ripulite del budellino (vedi qui);
  • una dozzina di pomodorini di Corbara pelati;
  • 1 spicchio di aglio;
  • prezzemolo;
  • sale, pepe;
  • olio extravergine.
Vado a preparare:
  1. Metto a lessare la pasta in abbondante acqua salata (10 gr per litro)
  2. Nel frattempo faccio soffriggere in una ampia padella un giro di olio e l'aglio intero schiacciato
  3. Appena l'aglio è biondo, lo elimino e aggiungo i pomodorini; li faccio andare velocemente, devono sentire appena il calore;
  4. A questo punto aggiungo le mazzancolle e le faccio saltare per qualche istante, il tempo affinché la polpa diventi bianca.
  5. Aggiungo la pasta scolata al dente, manteco rapidamente e servo spolverando del prezzemolo tritato e un giro di pepe.

Il sapore è delicatissimo e squisito e le chilocalorie circa 380; ci bevo del Gragnano rosso e frizzante, oppure se ci piace il bianco, un Greco di Tufo, dalla struttura robusta e acidula.

domenica 7 dicembre 2014

Trippa co' caso e ova

Ho già scritto a proposito della trippastavolta voglio proporre una preparazione molto particolare che fa riferimento ad Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, grande cuoco e letterato napoletano, autore di quella "Cucina Teorico-Pratica", prezioso ricettario di riferimento della tradizione culinaria partenopea, pubblicato in seconda edizione nel 1839 in dialetto.


Tralasciando la preparazione preliminare della trippa, visto che la compriamo già cotta, lavata e sbiancata, questa, cioè la trippa,

..... la fielle purzì quanno è cotta, e po' la miette dinto a 'na cazzarola co no poco de nzogna, presutto ntretato e petrosino, sale e pepe; farraje lo sbattuto d'ova e caso grattato e ne le mbruoglie pe' mmiezo e accossì la farraje servì.

(in poche parole, la trippa viene tagliuzzata sottile e messa sul fuoco in una casseruola con un po' di sugna (o olio extravergine), prosciutto tritato e prezzemolo, sale e pepe; nel frattempo si prepara un battuto di uova e formaggio grattugiato, si  mescola il tutto e lo si serve. Io aggiungo del basilico fresco e qualche goccia di limone.



Trippa al gratin

Una ulteriore variante del grande Cavalcanti cita:
...(la trippa) la faje felle felle e l'accuonce dint'a nu ruoto, co pane grattato, limone e no poco de petrosino, sale e pepe e no poco de butirro e la farraje ngrattini' a lo furno.

Penso che non occorra traduzione, la preparazione è semplice, chiara e squisita.
Da bere Falanghina dei Campi Flegrei.

giovedì 4 dicembre 2014

Trippa, trippa, trippa


A Napoli, nella popolare via Pignasecca a Montesanto, si trova quello che si può considerare il tempio delle frattaglie: "Le Zandraglie" di Emilia Fiorenzano, tripperia, friggitoria e cucina napoletana. Per un appassionato del quinto quarto, passare da quelle parti è un obbligo per officiare la sosta rituale dell'acquisto della trippa, del piedino di maiale e del "musso" bovino, tutto di prima qualità: la trippa dei Fiorenzano è considerata la migliore.
La trippa è, come è noto, una frattaglia, costituita dai  quattro stomaci dei bovini: 
  1. il rumine (Ciapa, Croce, Larga, Panzone) è la parte più spessa e più grassa della trippa, rappresenta circa l'ottanta per cento di tutto lo stomaco bovino.
  2. il reticolo (Beretta, Cuffia, Nido d'ape), ha un aspetto spugnoso e la sua forma ricorda una cuffia.
  3. l'omaso (Centupezzi, Foiolo, Libretto, Millefogli, Centopelli) è la parte più magra della trippa e si presenta con una caratteristica struttura lamellare.
  4. l'abomaso (Caglio, Francese, Frezza, Lampredotto, Quaglietto, Ricciolotta), che è quella più vicino all'intestino, ovvero la parte più scura della trippa di colore marrone e piuttosto grassa che richiama alla mente dei nastri arricciati insieme.
In genere acquistare la trippa mista, significa prendere le prime 3 parti di quell'elenco, mentre l'abomaso trova spazio in preparazioni particolari come il lampredotto fiorentino.
Rumine (a sinistra), reticolo (a destra, in secondo piano) e omaso (a destra in primo piano) - da Wikipedia
Si tratta di un cibo antico (i greci la cucinavano sulla brace, mentre i romani la utilizzavano per preparare salsicce) e povero, alimento tradizionale di molte regioni d’Italia e dell'estero; paradossalmente è un cibo trasversale e bipartisan che ha attraversato i secoli ed è stato apprezzato sia dalle cucine povere che da quelle ricche.
Un tempo la preparazione casalinga della trippa era lunga e laboriosa, intanto che in casa si spargevano odori non proprio appetitosi; fortunatamente oggi la trippa si trova sul mercato già bollita, lavata e sbiancata, pronta quindi per essere usata sia così com'è: all'insalata, condita con olio, sale e abbondante limone, che cotta in innumerevoli maniere.

Vorrei qui sfatare alcuni luoghi comuni sulla trippa:
  1. La trippa ha un brutto sapore. Errato, la trippa ha un gusto piuttosto indefinibile, non prevaricante e delicato che acquisisce e assorbe quello della preparazione.
  2. La trippa è grassa e indigesta. Errato, la trippa non è un alimento grasso, e la sua cosiddetta indigeribilità deriva dalla struttura dei tessuti proteici che la compongono; la trippa ha una consistenza callosa che non si spappola e quindi va tagliata sottile o a piccoli pezzi, inoltre è impiegata spesso in ricette di non semplice e rapida digestione.
  3. La trippa non nutre ed è ricca di colesterolo. Errato, 100 gr di trippa contengono:
    • il 72% di acqua, 
    • il 16% di proteine e 
    • solo il 5% di grassi, 
    • un valore energetico di 108 kcal, inoltre 
    • 107 mg di sodio, 
    • 18 mg di potassio, 
    • 4 mg di ferro, 
    • 18 mg di calcio, 
    • 50 mg di fosforo e in più
    • Vitamine del gruppo B
    • Vitamina C
L'onnipresente nutrizionista ci informa che le  proteine della trippa sono di ottimo valore e la grande quantità del ferro è perfettamente bio-disponibile. Anche l'apporto vitaminico è notevole: del gruppo B, sono presenti proprio le vitamine B12 e B9, ottime per contrastare l'anemia; quindi ci troviamo di fronte ad un signor alimento ipocalorico e anti anemico, light, insomma.
I modi e le ricette per preparare la trippa sono tantissimi, si può dire che ogni regione la tratta a modo suo, ma tutte, nella maggior parte dei casi, hanno una base in comune: un soffritto, gli aromi e il formaggio e le descriveremo a volo tenendo presente che per quattro persone occorrono 6-800 gr di trippa mista già pronta.

Trippa al sugo alla "napoletana"

Trippa al "sugo" alla napoletana
Per le classiche 4 porzioni. Ad un soffritto di aglio, peperoncino e prezzemolo si aggiungono 700 gr di trippa a striscioline e  si lascia svaporare l'acqua, si aggiunge mezzo bicchiere di vino bianco e lo si lascia sfumare. Si aggiungono 200 gr. di pomodori pelati e si lascia cuocere fino a far ritirare l’acqua ed intenerire la trippa (un trentina di minuti). Si serve calda, spolverata con pepe, parmigiano o caciocavallo stagionato grattugiato, basilico e un filo d’olio. Le chilocalorie sono circa 280 a porzione

Con circa le stesse proporzioni:

Trippa alla fiorentina


Ad un soffritto di cipolle, carote e sedano si aggiunge la trippa a striscioline, si lascia svaporare l'acqua, si aggiunge del vino e lo si lascia sfumare. Si aggiungono pomodori pelati e si lascia cuocere fino a far ritirare l’acqua Si serve calda, spolverata con pepe, parmigiano grattugiato e un filo d’olio.

Trippa alla parmigiana

Ricetta antica e povera, si fa con diversi tipi di stomaco bovino. La trippa viene cotta a lungo e si chiama “alla parmigiana” perché viene servita con grana. Si mangia come una zuppa al cucchiaio con  brodo; si possono aggiungere verdure come pomodori e cipolle per insaporirla.

Trippa alla romana

Ad un soffritto di aglio, peperoncino e prezzemolo si aggiunge la trippa a striscioline, si lascia svaporare l'acqua, si aggiunge del vino e lo si lascia sfumare. Si aggiungono pomodori pelati e si lascia cuocere fino a far ritirare l’acqua Si serve calda, spolverata con pepe, pecorino grattugiato, mentuccia e un filo d’olio.

Si potrebbe andare avanti in eterno, con infinite varianti di queste ricette base, ci sarebbero poi le ricette di trippa con aggiunte di altri ingredienti come legumi, salsiccia ed altro; magari ne parleremo in un altro post.

Su queste preparazioni ci bevo sempre vini locali non troppo marcati come il Piedirosso dei Campi Flegrei.

Variazioni sul tema
Trippa co' caso e ova

domenica 19 ottobre 2014

Sigarette lisce al pesto di salvia

Della serie "ricette veloci", una variante al più classico Pesto alla genovese, una rivisitazione dal gusto intenso e raffinato, per fare presto e, perché no, bella figura con qualche amico.

Useremo il mixer perché è comodo e si fa prima, ma chi vuole utilizzare il classico mortaio, potrà divertirsi a suo piacimento.
Per le quattro canoniche persone:

  • 280 gr di sigarette lisce (o quello che vi piace);
  • 2-3 mazzetti di salvia freschissima;
  • una manciata di pinoli (30 gr);
  • una manciata di mandorle (30 gr);
  • 50-60 gr di parmigiano stagionato
  • 50-60 gr di pecorino stagionato;
  • 1-2 spicchi di aglio;
  • olio extravergine di oliva q.b.
  • sale e pepe q.b.
La preparazione, dieci minuti, il tempo di cuocere la pasta:
  1. Metto nel bicchiere del mixer le foglie di salvia lavate ed asciugate, aggiungo l'aglio, i pinoli, le mandorle, i formaggi e qualche cucchiaio di olio.
  2. Frullo a piccoli colpi in modo da evitare di "cuocere" la salsa (simuliamo l'effetto del mortaio), aggiungendo di tanto in tanto un filo di olio ed un po' di acqua della pasta, fino ad ottenere una consistenza cremosa. Aggiungo sale e pepe quanto basta.
  3. Nel frattempo avrò lessato le penne in abbondante acqua poco salata (5 gr/litro).
  4. Metto in una zuppiera una parte del pesto, aggiungo la pasta appena scolata e mescolo velocemente, impiatto e aggiungo il resto del pesto a porzione.
  5. Guarnisco con qualche foglia di salvia.
Per i masochisti, le calorie sono circa 440 a porzione
Da bere: Falanghina del Beneventano o Fiano di Avellino. 

giovedì 16 ottobre 2014

La Sacra Pizza (11): Dies irae



Avevo terminato con i ringraziamenti gli articoli dedicati alla Sacra Pizza, orgoglio ineguagliabile di Napoli, quando l'inopportuno quanto mirato e tendenzioso servizio di Report, dedicato all'unico grande cibo universale che rappresenta l'Italia insieme agli spaghetti, ha fatto scattare in me fastidio, sdegno ed ira.
Sdegno ed ira perché si tratta dell'ennesimo attacco, con la scusa dell'inchiesta per la salute, e quindi intoccabile, perpetrato alle eccellenze del grande bacino gastronomico del Sud e guarda caso proprio a quella produzione che solo in Campania assume valore di ineguagliabilità.
Già è stata attaccata la mozzarella di bufala campana DOP (vedi il post Bufale di bufala)  dall'ineffabile Santoro di Anno Zero con un con ignobile servizio a favore dell'industria del Nord, che attende solo un cedimento delle nostre difese per impadronirsi del DOP e farla finita una volta per tutte con quel capolavoro del cibo artigianale; poi è stata la volta del caffè (ancora Gabanelli) e della farina (Oscar Farinetti: Eataly) e adesso la Pizza.
La difesa contro i continui assalti dell'industria internazionale del cibo omologato, senza qualità e senza gusto, complice l'Unione Europea che mal digerisce la tipicità artigiana della nostra industria alimentare, è strenua, ma le lusinghe delle sirene delle multinazionali si fanno sentire continuamente.
Il succo dell'inchiesta era questo: la cottura a legna è potenzialmente pericolosa, produce idrocarburi, e questo ce lo sentenzia un cosiddetto esperto veneto; e ci vuole un veneto per dire quello che è noto a tutti?
Come logica conclusione, dovremmo abolire il forno a legna per cuocere il pane e le pizze, proprio come volevano i burocrati europei alcuni anni fa, su pressioni delle lobby. Il messaggio sembra essere proprio questo. 
E così i solerti reporter della Gabana sono andati nelle peggiori pizzerie napoletane a mostrare fumi neri, pizza bruciate, prodotti scadenti, come se questa fosse la realtà della pizza a Napoli; mi viene da ridere perché l'ignoranza dei reporter di Report è profonda quanto la superficialità del servizio.
Se si fossero informati, anziché correre dietro il "falso" scoop, si sarebbero accorti che le pizzerie migliori e più famose hanno tutte filtri che assorbono il 98% del fumo, evitando così anche l'inquinamento dell'aria.
E avrebbero imparato due cose di cui i pizzaioli sono bene a conoscenza: che la pizza si infila rasoterra nel forno, senza farla entrare a contatto con il fumo, e che la si poggia sempre sullo stesso punto di cottura della precedente. 
Quelli di Report avrebbero scoperto che la pizza si mangia di norma cotta (chi l'avrebbe mai detto!) e non bruciata e se la pizza è bruciacchiata non è perché così debba essere, ma è perché il pizzaiolo è stato sciatto e incapace di fare il proprio mestiere.
Se la pizza è fatta con ingredienti scadenti è perché c'è qualcuno che per pochi centesimi di euro e per la miopia dell'ingordigia, getta fango e discredito su una categoria di bravi artigiani, detentori della sapienza del buon cibo. 
E la pizza è l'epitome della cultura gastronomica napoletana: Lievitazione naturale (col criscito), mozzarella di bufala campana DOP, pomodoro San Marzano DOP o pomodorini di Corbara DOP, basilico campano ed olio extravergine di oliva, gli ingredienti bandiera della Campania.

Davide e Golia
Ed è proprio questo il succo della trasmissione: dopo il caffè si attacca un altro dei simboli di Napoli facendo un grosso favore a chi guarda, con crescente fastidio, a questa culla artigianale del buon cibo dove, unico caso in Europa, i Mc Donald's chiudono invece di aprire.
Guardano con fastidio a Napoli soprattutto le multinazionali che non riescono a penetrare in questa mercato, il secondo d'Italia, perché non sono in grado di competere, in qualità, con i prodotti di Napoli, della Campania e del Sud. 
Ma si sa, di fronte alla necessità del'audience conta lo spettacolo e non le cifre. 
Un po' come Terra dei Fuochi: ancora non è consapevolezza di massa quello che tutti i ricercatori di laboratorio sanno benissimo: non solo i prodotti campani sono al di sotto dei limiti di rischio imposti dalla legge, ma sono anche molto più sani dei prodotti di altre zone (Luciano Pignataro).

venerdì 19 settembre 2014

5/4 ovvero quinto quarto

Non è un paradosso perché parliamo di musica e no. 
La musica é fondamentalmente simmetrica. Tutta la musica che "funziona", che entra subito in testa,è in 4/4 perché è il ritmo più facile da "prendere", inoltre è il tipico tempo che consente di ballarci sopra facilmente visto che, ogni volta che inizia il giro (battuta), ci troviamo con lo stesso piede (la macarena ed altri balli "di gruppo" deve essere in 4/4 altrimenti ci si pesterebbe i piedi).
Più ci si allontana dal 4/4 più l'ascolto diventa impegnativo perché il ritmo non è più scontato. 
E' comunque una questione di abitudine poiché il tempo di valzer è dispari (3/4: un, due, tre, un, due, tre...), un 5/4 lo batti tranquillamente con il piede, perché, generalmente (istintivamente), il piede batte i quarti. Solo che per fare una battuta devi batterlo 5 volte anziché le canoniche 4.
Un bellissimo esempio di un ritmo di 5/4 è il famoso "Take five" del sassofonista Paul Desmond, qui riprodotto in una delle innumerevoli esecuzioni col quartetto del pianista Dave Brubeck. 
Si tratta di un brano delizioso, ritmico ed incalzante, elegante e raffinato come pochi nel mondo del jazz, eppure che "piglia" immediatamente, pur essendo scritto con un ritmo "dispari".
Si sa che anche la Cucina è un'armonia, di sapori e di profumi, ed allora l'affinità con la musica, anche se spesso unita al paradosso diventa naturale: un accostamento obbligato come lo champagne con le ostriche.
Atteso che un animale, un vitello, ad esempio, sia composto di quattro quarti, un'idea "facile" da prendere: 2 quarti anteriori, 2 quarti posteriori e la bestia è finita, diventa complicato trovare il "quinto" quarto, a meno che non si ricorra all'idea del miracolo. Invece no! 
I quattro quarti, quelli pregiati, vengono venduti al mercato (una volta venivano "dati" ai Signori e ai Padroni), rimane la carcassa, il quinto quarto come si dice: testa, polmoni, cuore, fegato, milza, cervello, stomaci, pancreas, timo, intestini, mammelle, granelli, zoccoli e coda; insomma, tutto quanto la maggior parte delle persone non osa chiedere e mangiare. Che errore! 
A seconda della bestiole, il quinto quarto, detto anche "frattaglie" è quanto di più gustoso ci sia in un animale edibile, dalla trippa al "musso", dal piedino di maiale alla pajata, dalla "zuppa forte napoletana" agli "gnummarielli" o "gnummareddi" di agnello, per non parlare della "testina di maiale in gelatina o della lingua in varie salse, insomma un intero mondo di succulenti leccornie.
L'onnipresente nutrizionista ci informa che le frattaglie vantano un contenuto calorico mediamente inferiore a quello della carne (tranne la lingua); forniscono molte proteine di ottimo valore e ferro in grande quantità e perfettamente bio-disponibile. Anche l'apporto vitaminico è notevole: del gruppo B, sono presenti proprio le vitamine B12 e B9, ottime per contrastare l'anemia, quindi un prodotto ipocalorico e antianemico.
E così, come battere un ritmo 5 volte col piede diventa naturale e gradevolissimo, scoprire l'armonia del quinto quarto è un'esperienza da fare, deliziosa, elegante, raffinata e, udite, udite, nutriente e ....pure light. E vai!


Trippa, trippa, trippa
Trippa co' caso e ova

giovedì 18 settembre 2014

Minestra di Torzelle all'olio


Un'altra ricetta "povera" che il grande Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, letterato e grande cuoco del XIX secolo, autore di quel libro "La cucina teorico pratica", anche in versione "napoletana" del 1839, ci ha tramandato nei secoli, con la sua sapienza nell'arte della buona cucina. Un'altra ricetta che ha per protagonista la "torzella", un ortaggio "antico" dal sapore delicato che può arricchire la normale routine della cucina giornaliera. 
Qualche notizia in più sulla torzella o "tostariccia", la trovate qui, in questo blog.
Delle torzelle si prendono le sole cimette e i gambi più teneri, da far cuocere con l'olio e le alici.

Insomma, per le solite quattro persone:
  • 1 kg di torzelle,
  • 6 acciughe salate lavate e diliscate,
  • 1 dl circa di olio extravergine,
  • 2 spicchi d'aglio,
  • sale e peperoncino piccante: qb.
Preparazione:
  1. Lavate  e lessate le torzelle in acqua bollente salata per circa 10 minuti (anche meno se sono tenere e piccole le foglie);
  2. Levatele e scolatele;
  3. In tegame fate andare l'aglio nell'olio fino a che non diventi biondo,
  4. Levate l'aglio e unite le acciughe che lascerete dissolvere in parte,
  5. Unite le torzelle, un mestolino di acqua e lasciate insaporire un quarto d’ora o più aggiustando eventualmente di sale e peperoncino se piace.
Si mangi con il pane e ci si beva un bianco fruttato e deciso.


Foto tratta dal blog di Luciano Pignataro

mercoledì 10 settembre 2014

Cefalo alla Martigues

Martigues è una cittadina situata a pochi chilometri da Marsiglia. L'abitato si distende lungo il canale di Caronte, che collega il Mediterraneo allo stagno di Berre, uno specchio di acqua salmastra. Martigues si trova al capo est del canale, all'imbocco dello stagno, ed è forse per questo che il cefalo qui è di casa. 

La preparazione che propongo è tratta dal volume "Il mare in pentola" di Alan Davidson (Ed. Oscar Casa Mondadori - 1972) ed è di una semplicità estrema oltre che gustosa ed adatta ad un pesce non proprio pregiatissimo.

Per quattro persone:
  • Un bel cefalo (possibilmente un auratus o un bosega) da circa 1 kg
  • 1 cipolla grande da tagliarsi ad anelli
  • 400-500 gr di pomodori da tagliarsi a fette o datterini tagliati a metà
  • 1 limone da tagliarsi a fette
  • 1/2 bicchiere di vino bianco e 1/2 di acqua
  • olio, sale e pepe qb.

Preparazione:
  1. Squamate, eviscerate e lavate il cefalo (preferibilmente dorato, ma comunque freschissimo)
  2. Ponete il pesce in una teglia da forno, sopra un letto di pomodoro e anelli di cipolla.
  3. Bagnate con un filo di olio, col vino e l'acqua; condite con il sale e il pepe
  4. Disponete sul pesce una fila di fette di limone in modo da sovrapporle leggermente



  5. Cuocete in forno moderato per 25-30 minuti.


Le chilocalorie sono circa 250-260 a porzione, ovviamente se facciamo la scarpetta che, con del buon pane cotto a legna, è d'obbligo, le chilocalorie aumentano; fate voi.

Da bere un bianco fresco e acidulo, per sgrassare, come La Falanghina dei Campi Flegrei, oppure un Asprinio di Aversa "I Borboni"


Ragù napoletano

Anteprima
Il termine ragù deriva dal francese ragoût, che descrive varie preparazioni di carni, ed è stato utilizzato con molta probabilità da un monsù napoletano nella presentazione di questo piatto che, però, nulla a che vedere né con le preparazioni francesi, né con le altre salse di pomodoro italiane.
La preparazione del ragù napoletano ha inizio con la scelta della carne e purtroppo non esiste concordanza di pareri, tra i cultori, sul tipo di carne che deve essere utilizzata nella realizzazione del sugo. 
In pieno accordo con quanto espresso da Raffaele Bracale, posso solo dire che il ragù più vicino alla tradizione e contemporaneamente all'equilibrio organolettico dei vari ingredienti è quello che utilizza la sola carne bovina, rimandando al blog dell'enogastronomo Luciano Pignataro, le puntuali e deliziose considerazioni di Raffaele Bracale sul "vero ragù napoletano" e lasciando al lettore le proprie scelte. 
Una considerazione: seguire la tradizione ciecamente e acriticamente lo considero un esercizio sterile e fine a se stesso; per quanto mi riguarda, della tradizione voglio seguirne  lo "spirito", adattando al presente i completamenti; pertanto nella preparazione del gran ragù alla napoletana mi sono attenuto a quanto espresso, rispettandone l'essenza.


Preparazione
Posto che troverete  nel sottostante "glossario" i termini incomprensibili ai non-napoletani, ci procureremo, in macelleria, per le classiche quattro persone:

  • quattro belle fette (da 150-200 grammi) di lòcena di manzo che prepareremo a "braciola"
  • una spalla di manzo di circa mezzo chilo, o lacerto di annecchia
  • (facoltative) un paio di tracchiolelle di maiale, oppure una gallinella di maiale di circa 500 grammi (mai le salsicce!), la carne deve essere cucinata intera, legata ben stretta.
  • almeno un chilo di passata di pomodoro (italiana), 
  • 250 gr. di concentrato di pomodoro (italiano), 
  • una-due belle cipolle gialle di media grossezza, 
  • 100 cc di olio extravergine di oliva, 
  • 150 grammi di lardo in una sola fetta, 
  • 1 cucchiaio di sugna, 
  • 1 bicchiere di vino rosso, 
  • basilico abbondante, 
  • sale  

Dimenticavo il tempo, procuratevene tanto, almeno 4-6 ore.
  1. "Allacciate", cioè tritate insieme la cipolla, il lardo e qualche foglia di basilico, fino ad ottenere una sorta di impasto omogeneo grossolano.
  2. In un largo tegame, possibilmente di coccio, fate soffriggere il trito precedente insieme all'olio e la sugna, fino a quando la cipolla non diventi trasparente.
  3. Aggiungete la carne e fatela "stordire" per bene, rimestandola spesso con una cucchiarella di legno di olivo. 
  4. Aggiungete il vino un poco alla volta e lasciatelo, ogni volta, evaporare. Le cipolle dovranno essere ormai ben rosolate e ogni traccia di liquido estraneo sarà sparita. In questa fase l'attenzione dovrà essere massima pena il rischio che si attacchi tutto e la cipolla si bruci. A questo punto possiamo quindi interrompere la preparazione (ad esempio di sabato) per riprenderla il giorno dopo.
  5. Versate nel tegame la conserva di pomodoro, diluita con un poco di acqua tiepida, lasciandola soffriggere nel grasso fino a che non diventi scurissima senza bruciare. Dopo di che, aggiungete la passata di pomodoro e iniziate la lentissima cottura a fuoco bassissimo, il ragù deve "pippiare", liberando in cucina lo splendido aroma del sugo che diventa sempre più dolce e profumato a mano a mano che la cottura procede. Rimestate periodicamente per evitare che il tutto si attacchi al fondo della pentola.
  6. Dopo circa due-tre ore, a seconda della consistenza, aggiungete qualche foglia di basilico e salate un poco.
  7. Continuate la cottura fino a quando la salsa non sarà diventata cremosa, di colore rosso scuro e il condimento, separandosi dal pomodoro, non sarà salito a galla. L'aroma sarà gradevolmente dolce e profumatissimo, il sapore indescrivibilmente buono.
  8. A cottura ultimata, lasciate riposare la salsa per qualche tempo, diventerà più matura e più saporita.
Con questo monumento dell'arte della cucina, condirete della pasta di Gragnano, rigorosamente grossa almeno come gli ziti spezzati a mano (è la morte sua, perché il sugo si insinua nella pasta raddoppiando il sapore), ma non si disdegnano i rigatoni o i paccheri, siamo nel campo del gusto personale.
Prima di impiattare, versate in una capace zuppiera qualche mestolo di ragù, aggiungete la pasta ben scolata, e rimestate fino a quando tutta la pasta sia stata bene avvolta dal sugo.
Impiattate aggiungendo una mestolata di sugo sui maccheroni, una spolverata di parmigiano o, meglio di caciocavallo stagionato, e guarnite con un paio di foglie di basilico fresco.

Il vino da abbinare, rigorosamente rosso e di medio corpo, sarà ovviamente un Piedirosso (Per' e palummo) beneventano o dei Campi Flegrei.

Glossario

Lòcenacarne ricavata tra la punta di petto e la clavicola dell'animale
Braciola: grosso involtino di lòcena, fermato con il refe da cucina o con gli stuzzicadenti, bene imbottito di sale, pepe, prezzemolo ed aglio tritati, uva passa e pinoli oltre che di pezzetti di formaggio romano e/o caciocavallo podalico (o parmigiano).
Lacerto di annecchia: Lombo di vitella di un anno.
Tracchiolella: costina di maiale, possibilmente vicina al collo, più tenera.
Gallinella: Stinco di maiale privato dell'osso.
Stordire la carneRosolare bene la carne rigirandola spesso in tutti lati. Fase molto importante perché prepara la carne alle successive fasi nelle quali si assorbono i sapori e si cedono i sughi.
Pippiarevoce onomatopeica indicante quella fase nella quale dal fondo della pentola, dove è in cottura la salsa, affiorano ripetutamente in superficie delle bolle d’aria che rompendosi producono un suono simile a quello di chi tira una boccata di fumo dalla pipa.


Noterelle a margine:
  • Durante la fase di "pippiatura", la pentola dovrà rimanere parzialmente coperta per mantenere costante la temperatura; ad, es. si può inserire la cucchiarella di legno tra il bordo della pentola e il coperchio per mantenerlo sollevato da un solo lato.
  • Molti fanno il ragù utilizzando le salsicce di maiale; non nascondo che anch'io le utilizzo per fare il sugo, ma il risultato è solo un "sugo", una carne ca' pummarola magari anche buonissima, ma generalmente piuttosto lenta e salsa, assolutamente non comparabile con la consistenza, la dolcezza ed il profumo del ragù tradizionale dal quale è molto lontana.
  • In molti testi viene utilizzato - orrore! - anche il burro; la ritengo un'"eresia", il burro è un condimento usato soprattutto al nord e non fa assolutamente parte della "tradizione" partenopea e col ragù non c'azzecca.
  • Qualcuno, al punto 6 della preparazione, aggiunge un pizzico di noce moscata: vale quanto detto al punto precedente.
  • Dopo un piatto di pasta col ragù non è necessario mangiare altro se non la carne utilizzata nella preparazione, condita con delle verdure cotte: a Napoli si usano i friarielli (sorta di tenerissime cime di rapa, da soffriggere a crudo in padella con aglio, olio e peperoncino) che altrove non esistono, per cui si possono sostituire con bietole, spinaci o patate stufate.

La Sacra Pizza (10): Ringraziamenti

Desidero ringraziare:
  • Sergio Miccù, segretario dell'Associazione Pizzaioli Napoletani, che si batte affinché la Pizza, anche se accerchiata dalla globalizzazione di massa e dalle multinazionali dell'alimentazione, resti un cibo della tradizione culturale ed artistica napoletana.
  • La Confagricoltura e la CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) per la tenace opera di difesa dei prodotti nostrani e di stagione
  • La Associazione Pizzaiuoli Napoletani  e l'Associazione Verace Pizza Napoletana per la difesa e la tutela in Italia e nel mondo della "vera" pizza napoletana
  • Il blog di Luciano Pignataro per le innumerevoli informazioni e "dritte"
  • (Mi si consenta il ringraziamento rituale di ogni scrittore che si rispetti) Per ultimi, ma non per importanza, mia moglie e i miei figli che hanno sopportato l'isolamento nel quale mi sono rinchiuso per terminare questo lavoro dandomi il conforto e la carica necessari, senza mai lamentarsi.
Bibliografia

QUANDO IL RE SCENDEVA DA BRANDI A CHIAJA A FARSI UNA PIZZA
antiche storie e fatti recenti raccontate da Vincenzo Pagnani dietro il bancone della sua pizzeria, raccolte da Anna Maria Ghedina e messe in stampa da Vittorio Pironti Editore in Napoli

GABRIELE BENINCASA
La pizza napoletana. Mito, storia e poesia.
Napoli, Alfredo Guida Editore, 1992

ROBERTO MINERVINI
Storia della pizza.
Napoli, Società Editrice Napoletana, 1973.

GIUSEPPE PORCARO
Sapori di Napoli. Storia della pizza napoletana.
Napoli, Adriano Gallina Editore, 1985.

GIUSEPPE PORCARO
Taverne e locande della vecchia Napoli.
Roma-Napoli, Benincasa Editori, 1970.

FRANCO SALERNO
La pizza.
Roma, Tascabili Economici Newton, 1996.

JEANNE CAROLA FRANCESCONI
La vera cucina di Napoli.
Roma, Newton Compton, 1995.

NELLO OLIVIERO
Storie e curiosità del mangiar napoletano.
Napoli, E.S.I., 1983.

DOMENICO GAUDIOSO CAPECELATRO
Ottocento napoletano. Storia, vita, folklore.
Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1971.

FRANCESCO DE BOURCARD
Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti.
Napoli, Stabilimento Tipografico di Gaetano Nobile, 2 voll., 1853; Napoli, Marotta, 1965.

RAFFAELE DE CESARE
La fine di un regno.
Milano, Longanesi, 1969, terza edizione.

FRANCESCO MASTRIANI
Ciccio, il pizzaiuolo di Borgo Loreto.
Napoli, L.U.C.E.T., 1950.

MATILDE SERAO
Il ventre di Napoli.
Milano, Treves, 1884; Napoli, Luca Torre, 1992.

SALVATORE DI GIACOMO
La vita a Napoli.
A cura di A. Fratta e M. Piancastelli. Napoli, Bibliopolis, 1986.

domenica 7 settembre 2014

Carpaccio di cefalo con pomodori datterini e basilico

La diffusione del sushi ha fatto tornare di moda le preparazioni nostrane del pesce crudo, le quali nulla hanno da invidiare a quelle orientali, anzi, a mio personale ed umile parere, molto migliori dal punto di vista della varietà e della fragranza iodata del mare, non coperta dalla salsa di soia o dal terrificante ma gustoso wasabi, per non parlare della eccessiva manipolazione dei bocconcini giapponesi.
La tradizione italiana è piena di piatti di pesce da gustarsi crudi: frutti di mare, "allievi" pugliesi, sontuose marinate di alici, spada o spigola; purtroppo si corre il rischio di incontrare, sulla strada del crudo, il parassita Anisakis, il cui ultimo stato larvale può finire casualmente in un ospite, definito per questo accidentale, che può essere l'uomo, se quest'ultimo si ciba di pesce crudo o poco cotto.
L'unico sistema per assicurarsi della morte del subdolo vermiciattolo è quello di congelare il pesce ad almeno -18°C per 2-3 giorni (l'anisakis e le sue larve muoiono dopo 96 ore a -15°C, 60 ore a -20°C, 12 ore a –30°C, 9 ore a -40°C), oppure cuocerlo fino al raggiungimento, all'interno del pesce, della temperatura di 60°C per almeno 1 minuto; un bel guaio per chi predilige veramente il pesce, che non ama trattamenti così violenti, specie una cottura così prolungata da rendere stoppacciose le carni del nostro prediletto frutto del mare.
Ma pazienza, ob torto collo, congeliamo i nostri cefali per 3 giorni a -18°, li facciamo scongelare in frigo e finalmente ci accingiamo a sfilettare i pesci per preparare il  nostro carpaccio o la nostra marinata. 
Per la sfilettatura non sto qui a spiegare le fasi dell'operazione, vi invito a guardare le splendide immagini di Alice TV, talmente esplicite e facili, da rendere inutile ogni commento; ciò fatto passiamo alla preparazione. 
Per le classiche quattro persone:
  • 320 gr di carpaccio di cefalo,
  • 100 gr circa di pomodorini datterini (da evitare i ciliegini troppo dolci)
  • olio, sale, basilico qb
  • qualche foglia di menta (facoltativo)
  • qualche goccia di limone
La preparazione è semplicissima:
  1. I datterini sciacquati ed asciugati vegono tagliati a dadini e riposti in una ciotola
  2. Condite con un filo di olio, un pizzico di sale e profumate col basilico tagliato a pezzetti; lasciare insaporire per qualche minuto
  3. Disponete il carpaccio di cefalo sul piatto di portata, distribuitevi sopra i pomodori, guarnite con delle foglie di basilico o di menta, condite con un filo di olio e qualche goccia di limone.

Da bere propongo una Falanghina dei Campi Flegrei dal sapore fresco e fruttato di pesca, oppure le bollicine di un Prosecco o, perché no, quelle di uno spumante brut di qualità.

sabato 6 settembre 2014

Cefalo

Mugil cephalus (Linnaeus, 1758), conosciuto comunemente come cefalo o mùggine, è un pesce appartenente alla famiglia Mugilidae nella quale sono sette specie mediterranee. Molto simili tra loro, i mugilidi hanno tutti una bella linea idrodinamica, bocche piccole e si cibano di materie organiche (quali materie organiche, in particolare, è importante in quanto influiscono sul sapore delle loro carni).
Cefali bosega puliti e pronti per il forno

La livrea è piuttosto simile per tutte le specie: bianco argenteo con pinne più o meno tendenti al giallo o al bruno. Alcune specie presentano striature brune o macchie sulle pinne, altre sono tendenti al rosa. Sono essenzialmente pesci di acque costiere, ma si possono trovare anche in acque salmastre.
Il poeta greco Oppiano di Anazarbo (Cilicia), autore degli «Halieutica» trasforma un patrimonio di conoscenze ittiologiche e alieutiche in un’opera letteraria di alto livello artistico, giudicando i pesci più dal loro comportamento che dal sapore.
Oppiano aveva grande ammirazione e simpatia per i cefali, a suo credere i più miti e più giusti tra i figli del mare, animali che non si facevano del male a vicenda e non ne facevano ad altre creature, che mai si macchiavano del sangue altrui, ma santamente si cibavano di alghe o di fango.
La simpatia del poeta è evidente anche quando descrive le tecniche per attirare in trappola un cefalo maschio usando come esca una femmina.
Questa tecnica è ancora in uso, ma mai così poeticamente descritta come in questo passo di Oppiano:
"Un'egual sorte l'Amore riserva ai Cefali; perché anch'essi sono allettati da una femmina trascinata attraverso le onde. La femmina deve essere in buona salute e di forme piene.
Perché così i maschi, quando la vedono, le si radunano intorno innumerevoli, e stupiti e vinti dalla sua bellezza non l'abbandonano più... Ma come i giovani, quando vedono una donna bellissima, prima la guardano da lontano, ammirandone la leggiadria, poi si fanno vicini e, tutto dimenticando, abbandonano la strada che prima tenevano per seguire lei, incantati, allettati dai dolci profumi di Afrodite, così vedrete fare all'umida folla dei Cefali che appassionatamente si stringono e fan ressa."

Le specie più interessanti per noi sono:

venerdì 5 settembre 2014

Spaghetti di scàmmaro

Una pietanza di scàmmaro è un piatto che veniva mangiato nelle giornate di Quaresima, cioè di magro, come viene spiegato qui.
In questa sede ci occupiamo di uno scàmmaro quaresimale rivisitato da Pasquale Torrente del Convento di Cetara; preparazione è un po’ complessa, ma sicuramente molto appagante.
Per le rituali quattro persone: 

  • 300 gr. di vermicelli o spaghetti in trafila di bronzo
  • 16 filetti di alici salate, 
  • 24 olive nere di Gaeta, 
  • 40 grammi di capperi, 
  • 1 spicchio d'aglio, 
  • 1 peperone crusco (facoltativo), 
  • colatura di alici di Cetara, 
  • pane grattugiato, 
  • olio extravergine di oliva, 
  • pan grattato, sale, pepe, prezzemolo. 
  • Occorrono quattro stampini individuali, oppure un unico contenitore da forno.
  1. In una padella far dorare uno spicchio d'aglio in un filo d'olio; eliminarlo quando è biondo.
  2. Aggiungere le alici salate ed un mestolo s’acqua, successivamente le olive e i capperi.
  3. Cuocere gli spaghetti molto al dente e versarli nella padella dove aggiungerete qualche goccia di colatura di alici.
  4. Prendete gli stampini ed ungeteli con olio e pangrattato, riempiteli con gli spaghetti e infornate 10 minuti a 200 gradi.
  5. Capovolgere le forme nel piatto piano, guarnire con le alici a decorazione, una spolverata di prezzemolo, di peperoni cruschi sbriciolati a mano ed un filo d’olio a crudo.



Su questo piatto forte, saporito e sapido berrei Falanghina, un bianco forte e strutturato e fresco, oppure consiglierei un Piedirosso che ben si sposa, grazie ai suoi tannini leggeri e morbidi, oltre che con la sua freschezza, con un piatto di questa fatta.
Foto e  ricetta da Wineblog di Luciano Pignataro

Frittata di scàmmaro ovvero penitenza con gusto

Nella cucina popolare partenopea, vi sono piatti dalla grande tradizione che spariscono nelle nebbie della dimenticanza, sopraffatti dal continuo bombardamento delle "novità a tutti i costi" in cucina che la TV ci propina ad ogni piè sospinto con decine di chef, più o meno improvvisati, che ci incantano con mirabolanti quanto ardite combinazioni dal gusto spesso discutibile o con ignobili mappazze.
Invece vorrei parlare di una pietanza che, per la sua semplicità di preparazione, genialità di invenzione e gusto, sicuramente indovinato, merita di essere riscoperta e rivalutata perché degna di grande interessamento.
Parliamo della frittata di "scàmmaro", che potrebbe definirsi, a voler essere grezzi, una frittata di maccheroni, senza uova, conditi con olive nere, capperi e acciughe; un piatto "di magro" (lo scàmmaro) che tuttavia trae origini nobilissime.
Pare che su richiesta della Chiesa, Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, grande cuoco e letterato napoletano, avesse elaborato questo piatto, coniugando sapientemente il piacere del cibo alla necessità della penitenza quaresimale: è un piatto privo di proteine animali, se si escludono le acciughe, non considerate tali dalla chiesa, e quindi adatto ai periodi di magro.
Pare che "cammarare", fosse una dispensa speciale per i frati che, pure nei giorni di quaresima, erano esentati dal mangiare di magro, purché rimanessero in "cammara", cioè nella loro celletta per non disturbare i loro confratelli costretti a mangiare di magro. 
Se, quindi, “cammarare”, significa “mangiar di grasso”, con la “s” davanti, il verbo diventa “mangiar di magro”; i "giorni di scàmmaro" nel Regno delle Due Sicilie identificavano i giorni della quaresima e tutti gli altri giorni dell'anno nei quali, per precetto religioso, era obbligatorio mangiare di magro, una sola lettera, quindi, sortisce l'effetto non indifferente, per i poveri penitenti di "... mettere a posto la coscienza e non soffrire le pene infernali di chi si priva del godimento di un piatto tanto semplice quanto gustoso" (Monica Piscitelli). 

Il Cavalcanti, nel suo trattato "Cucina Teorica-Pratica" descrive così questa "frittata":


"Scaura tre rotole de vermicielle, ma teniente, teniente, li scule e li buote dinto a no tiano co tre mesurielle d'uoglio zoffritto, co miezo quarto d'alice salate, e pepe, quanno l'aje mbrogliate e asciuttate, ne miette na mità dinto a la tiella e nge miette na mbottonatura d'aulive senza l'osso,de chiapparielle, d'alice salate a meza a meza, passe e pignuole, nge miette l'auta mmità de li vermicielle e nge farraje fa la scorza sott'e ncoppa, facennola friere co la nzogna o co l'uoglio." 

Una possibile traduzione potrebbe essere - tener presente che un "rotolo" equivale a 890 gr:

"Lessa 3 chili (circa) di vermicelli, appena al dente li scoli e li rivolti in un tegame con tre misurini di olio, soffritto con 150 gr di alici salate e pepe. Dopo averli girate più volte fino all'assorbimento del condimento, ne metti una metà in una padella e li imbottisci con olive snocciolate, capperi, acciughe aperte a metà, uva passa e pinoli. Aggiungi l'altra metà dei vermicelli e li farai diventare croccanti friggendoli con la sugna o con l'olio."

Dunque si tratta di una preparazione molto semplice, sia negli ingredienti che nella preparazione.
Dal blog "A cucina e mammà" di Roberto Fusco"

Una versione "umana", nel senso delle dosi, della ricetta del Cavalcanti potrebbe essere:
  • 300 gr di vermicelli trafilati al bronzo
  • 100 gr di olive nere di Gaeta
  • 35-40 gr di capperi
  • 50 gr di uva passa ammollata in acqua
  • 50 gr di pinoli dissalati
  • 4-5 alici sotto sale sfilettate
  • uno spicchio di aglio
  • olio, sale, pepe, prezzemolo  qb.


  1. Cuocere la pasta in acqua leggermente salata e scolarla molto al dente.
  2. In una padella "comoda", che conterrà poi anche la pasta, fate imbiondire l'aglio con qualche cucchiaio di olio, aggiungete le alici e cuocete solo per qualche minuto.
  3. A fuoco dolce, aggiungete la pasta rigirandola più volte con un poco di acqua di cottura, in modo da far assorbire il condimento e consentire che l'amido rilasciato faccia, in mancanza dell'uovo, da legante; aggiustate di pepe a vostro gusto.
  4. In un tegame, con un poco di olio, fate  cuocere, a fuoco dolce per qualche minuto,  le olive snocciolate e tagliate a metà, i capperi, l'uvetta ed i pinoli.
  5. A questo punto mettete metà della pasta in una padella di ferro, pressandola leggermente; distribuitevi uniformemente, a mo' di imbottitura, le olive, i capperi, l'uva passa e i pinoli.
  6. Coprite con l'altra metà della pasta e passate alla cottura.
  7. Poiché quest'ultima risulta lunga, almeno 15 minuti per lato, occorre lavorare a fuoco dolce facendo ruotare la padella, in senso orario o antiorario, sul fornello per ottenere una doratura quanto più omogenea possibile, prima da un lato e poi dall'altro ed inclinandola per permettere la doratura anche ai bordi e per evitare una eccessiva cottura del centro.
Da bere un bel bianco strutturato come il "Greco di Tufo", oppure un frizzante "Gragnano" rosso.

Una versione più ricca, che ha stupito non poco i miei amici durante il cenone di capodanno sono :