Un paio di milioni di anni fa, quell’ominide che poi sarebbe
diventato uomo, decise di scendere dagli alberi e di andare a vivere sul
terreno. In realtà la decisione fu un po’ lunga a prendersi, solo una decina di milioni
di anni (erano quelli, in quell’epoca felice e lenta, i tempi dell’evoluzione),
ma fu un passaggio di importanza fondamentale per almeno due validi motivi: in
primis, l’ominide perse quel suffisso ”pithecus” che lo accomunava, anche se a
ragione, alla scimmia, in secundis, razzolando sul terreno, quell’essere imparò
a costruire alcuni semplici utensili che gli consentirono di nutrirsi di spoglie
animali, tuberi e radici.
Divenne pertanto habilis
e per la prima volta si fregiò del titolo di “homo”. Il passaggio da una dieta essenzialmente erbivora e frutticola
ad una alimentazione onnivora, secondo recentissimi studi, portò ad un aumento
delle capacità encefaliche, quindi del volume del cervello (ca. 1.000 cc) e
della statura al punto che furono maggiormente specializzate le funzioni della
struttura fisica: le gambe si svilupparono per sostenere il corpo e correre, le
mani per prendere e manipolare, il busto si erse per guardare più lontano, in
poche parole, l’homo da habilis divenne erectus.
L’homo erectus,
avendo una maggiore capacità intellettuale, necessitava di maggiore energia e
quindi di nutrirsi meglio: cacciava in gruppo anche prede grandi e soprattutto
cominciò ad utilizzare il fuoco per cuocere il cibo e riscaldarsi.
Seguendo le migrazioni degli animali, l’erectus si spostava e migrò dall’Africa verso l’Europa e imparò a
sagomare pietre e ciottoli per realizzare semplici armi, utilizzando utensili di
legno e di osso.
Siamo a circa 500.000 anni fa, l’homo occupava ormai gran parte dell’Europa, cominciò a costruirsi
dei rifugi in legno e a cacciare animali con l’uso di armi a propulsione, come
le lance; l’alimentazione stabilmente onnivora e le migliori condizioni di vita
consentirono l’aumento della statura e un ulteriore sviluppo cranico che
raggiunse un volume pari al nostro.
200.000 anni fa in Europa si trovava l’homo sapiens neanderthalensis, o uomo di Neanderthal, con il quale si
ampliò il sentimento sociale: le tribù, meglio strutturate, avevano tradizioni
proprie, curavano gli anziani e seppellivano i morti; svolgevano forse pratiche
rituali.
Circa 90.000 anni fa, comparve l'uomo moderno, l’homo sapiens sapiens, che un poco alla
volta assimilò le popolazioni dell'uomo di Neanderthal.
Il sapiens sapiens
era in grado di lavorare ossa e corna da cui otteneva, tra l'altro, aghi e arpioni
per la pesca. Sviluppò un senso artistico, testimoniato da numerosi
ritrovamenti di pitture rupestri, statuette di animali e figure femminili.
Il resto è storia recente, con un volume di cervello di oltre
1.350 cc, il sapiens compie balzi
lunghissimi lungo la via dell’evoluzione: sviluppa un linguaggio, impara a
commerciare, addestra il cane, dipinge sulla roccia e finalmente 10.000 anni fa
impara l’agricoltura e l’allevamento; l’uomo diventa stanziale e nascono i
primi villaggi.
5.000 anni fa l’homo
comincia a fondere i metalli e a scrivere: comincia l’era moderna.
Con la certezza del cibo in ogni stagione, grazie
all’agricoltura ed all’allevamento, con la capacità di conservarlo e cuocerlo
diversamente che sul semplice fuoco con i vasellami, l’homo sapiens principiò a strutturare diversi modi di prendere il
cibo: crudo ma condito, cotto al fuoco, bollito, affumicato, essiccato,
sviluppando anche diversi modi di insaporirlo e soprattutto di modificarlo
realizzando anche pietanze non presenti spontaneamente in natura, come il pane.
Gli umani sono gli unici esseri viventi che possono
definirsi "buongustai". Gli animali si nutrono, gli uomini mangiano,
trasformano i cibi, li modificano e ne estraggono sapori, profumi, raggiungendo
spesso risultati impensabili per il palato.
L’homo quindi
diventa “gastronomicus”, cioè mangia
non solo per nutrirsi ma anche per il piacere del palato e ciò non deve stupire
perché la ricerca del “bello” e del “buono” ha da sempre caratterizzato
l’umanità.
L’uomo nel mangiare cerca il buon “gusto” un coacervo di
sensazioni che colpiscono dapprima con il sapore,
sensazione sensoriale della lingua, ma anche con il sapere, cioè valutazione di ciò che piace o non piace, di ciò che è
buono o cattivo, da ciò che è commestibile o tossico.
Il gusto pertanto non è più solo una realtà soggettiva e
incomunicabile, ma collettiva e condivisa; un’esperienza di cultura, frutto di
una tradizione e di una estetica che
la società ci trasmette sin dalla nascita.
Il cucinare è di fatto un’arte le cui tecniche vengono
trasmesse nei secoli prime oralmente, per tradizione come accade anche oggi in
famiglia, e poi per iscritto attraverso le “recepta”
che verso la metà del XV secolo assunsero il significato attuale.
Quello che colpisce nei ricettari antichi è che essi spesso
parlano di arte coquinaria, arte
quindi della valorizzazione del cibo e del riconoscimento della perizia
dell’operatore destinata, spesso alla mensa principesca.
La preparazione dei cibi, essendo un’esperienza collettiva,
prese due strade diverse, la prima, semplice e frugale, destinata ai poveri e
ai contadini, si riferiva alla facilità di reperire i prodotti in loco, la
seconda, destinata ai ricchi e benestanti si orientò dapprima alla crapula e
poi alla ricerca dei cibi sempre più rari, raffinati e di conseguenza costosi.
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Homo gastronomicus esageratus |
Con il crescere del benessere, sempre più diffuso, la cucina
ricca ed abbondante prende piede anche nella piccola borghesia; se ne appropria
l’industria alimentare che la diffonde, per emulazione, anche ai ceti più bassi
ai quali viene destinato il cosiddetto “cibo
spazzatura”; l’homo gastronomicus”,
spinto dalle lusinghe di una pubblicità tendenziosa, tende ad ingozzarsi di cibi
di ogni tipo al solo scopo di esibire la conquista di un benessere ormai
raggiunto.
L’uomo diventato obeso, poco attraente, rifiutato dagli
stilemi di una società sempre più di apparenza che di sostanza, spinto da
un’industria che prima lo spinge a rimpinzarsi di tutto e successivamente a
schifare il proprio aspetto, si butta, con il pentimento, alla ricerca di una
soluzione.
L’homo gastronomicus non
si è estinto ma ha generato la sottospecie homo
dieteticus, l’uomo del mea culpa che
si distingue per la conoscenza enciclopedica di tutte le diete che sono state
consigliate sia da medici che da astute campagne pubblicitarie industriali.
Se si escludono i regimi alimentari per quelli che soffrono
di particolari patologie, le diete servono solo al gusto estetico della
piacevolezza della persona e ovviamente non vi si bada a spese.
Come si legge nel frontespizio del libro “Homo dieteticus”,
dell’antropologo Marino Niola, “siamo entrati nell’era di Homo dieteticus. Crudisti,
sushisti, vegetariani, vegani, gluten free, no carb: fra etica e dietetica la
ricerca del modello alimentare virtuoso è diventata la nuova religione globale.
E come tutte le religioni nascenti produce continue contrapposizioni, scismi,
eresie, sette, abiure. Ciascun credo si ritiene l’unica via verso la salvezza.
E verso l’immortalità. O almeno quel suo succedaneo salutistico che chiamiamo
longevità. Così anticipiamo il giorno del giudizio e facciamo del dietologo una
sorta di Dio giudice. O di Dio una sorta di dietologo improprio, che dispensa
premi e castighi qui e ora. Ecco perché la dieta non è più una misura di
benessere, ma una condizione dell’essere”.
E ancora Niola. “In una società secolarizzata come la
nostra, da cui è svanito ogni orizzonte trascendente, religioso o laico, la
sacralità si è ormai trasferita al corpo, che è diventato il simulacro di Dio.
Il tabernacolo di un culto a sé che ha messo l’Io al posto del Dio, rendendo
nel contempo ciascun individuo responsabile della cura e della conservazione
del simulacro».
Inoltre, sostiene l’antropologo, il desiderio di rinunce
alimentari potrebbe essere una reazione all’abbondanza di cibo, senza
precedenti, di cui gode il mondo industrializzato: «Il fatto è che in una
società come la nostra il grande nemico non è la fame, ma l’abbondanza. Che si
porta dietro il suo minaccioso carico di sensi di colpa, fobie e
idiosincrasie».
“Prendi un alimento, eliminalo del tutto, e vedrai che la
tua vita cambierà. La carne, per esempio. Oppure il latte, i carboidrati, o i
dolci. Meglio ancora: individua un ingrediente comune nei cibi di largo
consumo, proietta su di esso tutti i tuoi malanni o disagi, e comincia la
battaglia. Come l’olio di palma. Ma anche il glutine, il lievito, il glutammato
di sodio. Più che perseguire il bene, si tratta di rifuggire il Male.
Vegetariani (niente carne), vegani (niente cibi di origine animale),
gluten-free (niente glutine), paleo-diet (niente di “moderno”, dove per
“moderno” s’intende successivo alla Rivoluzione del Neolitico, quella che
introdusse l’agricoltura 12 mila anni fa), gli anti Ogm (niente cibi
geneticamente modificati) e, nel caso più estremo, i sedicenti brethariani
(niente cibo, punto). Libera nos a malo” (Anna Momigliano).
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Homo dieteticus |
Stare a tavola con un dieteticus
è deprimente: l’unico argomento di discussione è la dieta, la sua, lui sa
tutto, ti vuole dire tutto e te lo dice e non cessa di valutare con malcelato
biasimo il nostro regime alimentare, salvo poi, la prossima volta, esaltare la
sua “nuova” dieta in spregio a quella che fino a prima era tanto glorificata,
novelli talebani del gusto sono intolleranti e manichei, insoddisfatti e
punitivi.
La degenerazione di questo stato si può trovare nell’”homo pharmaceuticus” il quale cerca nel
cibo la prevenzione e/o la cura verso le malattie.
Il cibo diventa così una possibile farmacia furba e
intelligente. Nel piatto si vedono pasticche, supposte, sciroppi, pillole,
pomate e iniezioni; il cibo è selezionato non più per il sapore ma per i
benefici medici che ne possono derivare, è una continua rinuncia al piacere
della tavola e quindi della convivialità, un neo-cinismo culinario che anziché
all’ascesi terrena intesa come superiore spiritualità, porta inevitabilmente ad
una sorta di lucida paranoia esistenziale, una psicosi persecutoria sostenuta
soprattutto da articoli prelevati dai media, social e no.
Ovviamente dietro il fenomeno c’è chi lo cavalca e spinge,
non solo medici ma soprattutto, eccola là, l’industria dell’alimentazione
cosiddetta “sana” che deve piazzare costosi prodotti come fitoterapici, antiossidanti,
riequilibranti intestinali come il colostro e alcuni ceppi di probiotici, antigenici:
soldi e tanti.
La stessa industria del cibo che ci ha spinto ad abbandonare
i prodotti locali e di stagione per inseguire il mito della globalità culinaria
a basso costo e bassa qualità, quindi dannosa per la salute, ci spinge verso
altri prodotti, ovviamente più costosi per tappare le falle dell’alimentazione errata
da essa stessa determinata.
Dall’incrocio tra il dieteticus
e il pharmaceuticus nasce l’homo hortoressicus.
In un sistema del benessere, la sensazione è quella di
onnipotenza, ma la mancanza di limiti si traduce nella necessità di imporre a
se stessi dei limiti: non mangio carne, non mangio glutine, non mangio latte,
per esorcizzare il mio disagio.
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L'aspirazione dell'Homo Veganensis |
Nel 1997 lo psichiatra Steven Bratman coniò il termine l’“ortoressia nervosa”, per descrivere
l’ossessione per le “diete sane”, legato a un disturbo dell’ansia, cioè alla
necessità di esercitare il controllo alla propria esistenza.
Se per i celiaci l’astensione dal glutine è una necessità,
per l’ortoressicus questa astensione
fa bene a tutti a prescindere.
Occorre capire dove sta il confine tra chi, magari anche
sbagliando, intende semplicemente seguire una dieta sana e chi è invece è
guidato da un’”ossessione”.
Il prof. Levinovitz, studioso di religioni, la mette giù in
termini più esistenzialisti: “Fatti una domanda: alla fine della tua vita, ti
renderà felice pensare al tempo che hai sprecato preoccupandoti di ciò che
mangi? Al tempo che hai trascorso davanti allo specchio chiedendoti quale dieta
ti avrebbe reso una persona migliore? Conosco persone terrorizzate dall’idea di
partecipare a una cena o a una riunione di famiglia perché temono di entrare in
contatto con cibi malsani o impuri. Questa è la mentalità dell’ortoressico”
L’ortoressia è stata proposta come forma patologica per la
prima volta da Steve Bratman nel 1997, dietologo che si autodefinisce
"ex-ortoressico" e che ha formulato un questionario allo scopo di
identificare quella che lui ritiene essere una psicopatologia.
L’hortoressicus, per
seguire un regime così duro deve essere dotato di una grande forza di volontà e
questo lo fa sentire estremamente sicuro delle sue convinzioni e superiore alle
persone che non hanno un simile autocontrollo.
“Una persona che si riempie le giornate mangiando tofu e
biscotti a base di quinoa si può sentire altrettanto pio di chi ha dedicato
tutta la vita ad aiutare i senza tetto” afferma il dr. Bratman.
Per contro, se l'ortoressico rompe il suo voto di
alimentazione sana e soccombe al desiderio di un cibo “proibito”, si sente
colpevole e impuro. Questo lo induce a punirsi con regole di astinenza ancor
più severe. Si tratta di un comportamento simile a quelli delle persone che
soffrono di anoressia o bulimia nervosa, salvo che gli anoressici e i bulimici
si preoccupano della quantità di cibo consumato, gli ortoressici invece della
qualità.
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Ortoressico all'ultimo stadio |
Risulta molto difficile che la persona affetta da ortoressia
riconosca questo come problema e di conseguenza si rivolga ad uno psicologo,
essa è invece convinta della giustezza delle proprie scelte al punto di farne
un succedaneo fanatico di una religione della sottomissione.
Per molti Europei, la salute rappresenta attualmente una
variabile molto importante nella pianificazione del menu. Come trovare il
giusto equilibrio tra il mangiare sano e l'ossessione per il mangiare sano?
Come per molti altri aspetti della dieta, la chiave è il
buon senso e la moderazione. I cambiamenti delle scelte alimentari devono
essere effettuati gradualmente e in modo adeguato ai gusti e allo stile di vita
della persona.
Un'alimentazione più sana deve avere un effetto positivo sulla
salute senza ridurre i piaceri della vita o influire sui rapporti con gli
altri.
In sintesi:
- Non esistono “cibi cattivi” o “cibi buoni” –
normalmente le sostanze cattive sono dei veleni e perciò non si possono
ritenere dei cibi.
- Mangiando cibi selezionati non ci assicura la
salute e non si sconfiggerà per forza la morte. E' importante non mangiare in
modo errato, ma la sola alimentazione non può assicurare una buona salute. Non
siamo solo “ciò che mangiamo” ma siamo anche "ciò che nasciamo".
- Non esistono modelli validi per tutta la nostra
vita. Ad ogni fase della vita abbiamo bisogni diversi.
- Ogni persona deve poter scegliere il proprio
fabbisogno alimentare tale che possa essere compatibile con la propria qualità
di vita. Ogni persona ha una reazione diversa ai diversi tipi di cibo e i cibi
stessi hanno caratteristiche che possono variare nel tempo.
- Ricordiamoci che mangiare bene è un diritto, non un peccato; Si può sconfiggere il
sovrappeso concependo il cibo come un concetto positivo. Se si fermasse il
sovrappeso, si eliminerebbe uno dei principali fattori di rischio in patologie
gravi e diffusissime. Anche se avere uno stile di vita sano può aiutare a
mantenere una buona salute, tuttavia ciò non è sufficiente per sconfiggere
alcune malattie gravi come il cancro oppure la sclerosi multipla.