domenica 25 gennaio 2015

Filetto di maiale al marsala


Nella nostra regione, si sa, la carne non appartiene alla tradizione; il popolo dei mangiafoglie, prima, e dei mangiamaccheroni, poi, non contemplava, visto l'alto costo, l'utilizzo della carne nella propria alimentazione.
Nei giorni "speciali", chi poteva permetterselo, sceglieva la carne di secondo taglio, quella meno bella, quella un po' nervosa che necessita di lunghe cotture come nel ragù o nella genovese, i più poveri puntavano sulle frattaglie: trippa all'insalata, al pomodoro o carne cotta.
Questa tendenza alla carne meno pregiata è rimasta radicata anche ai nostri giorni, certamente più opulenti di quelli storici, ma il popolo napoletano rifugge dalle carni nobili, quasi fosse impresso nel DNA,  e nelle macellerie tutt'ora non è facile trovare un pezzo pregiato come il filetto perchè ne viene richiesto poco e, quando c'è, è destinato a chi lo ha espressamente ordinato. 
Alberto, il nostro macellaio di fiducia, mi ha procurato del filetto di maiale che ho deciso di cucinare al marsala, una preparazione semplice e veloce, che ben si accompagna al gusto del maiale per la presenza di note agrodolci sfumate nel retrogusto, mentre la salvia e l'alloro ne rinforzano il profumo con delicate note erbacee.
Per 2 persone:

  • 6 fette di filetto di maiale (300-350 gr), spesse un centimetro e mezzo, circa
  • 1 pezzo di prosciutto crudo (30 g)
  • 1 scalogno o cipolla piccola
  • 1 foglia di alloro
  • 1 foglia di salvia
  • mezzo bicchiere di brodo (o acqua)
  • mezzo bicchiere di marsala
  • olio q.b.
  • 30 gr di burro
  • 5 gr di farina (io mi regolo con una forchetta)
  • sale e pepe
La preparazione è semplicissima e veloce:
  1. In una padella faccio rosolare, con un filo di olio, la foglia di alloro, quella di salvia, lo scalogno tagliato finemente e il prosciutto a pezzetti.
  2. Appena la cipolla è ben trasparente, aggiungo la carne e la rosolo per qualche minuto da tutte le parti per chiuderne i pori.
  3. Tolgo l'alloro e la salvia, allungo con il brodo e faccio cuocere vivacemente ancora per qualche minuto (il liquido dà il tempo alla carne del maiale di cuocere fino all'interno).
  4. Aggiungo il burro e, quando è sciolto, la farina picchiettando sulla forchetta, mescolando velocemente per evitare i grumi.
  5. Alla fine aggiungo il marsala e faccio mantecare fino ad ottenere una crema morbida.
  6. Aggiusto di sale e di pepe e servo


Da bere un bianco ben strutturato come il Greco di Tufo oppure un rosso di basso corpo come il Piedirosso o il Gragnano.

mercoledì 21 gennaio 2015

Il Riso (parte II - dalle mondine alla tavola)

Tutti, penso, ricordiamo la bellissima "mondina" Silvana Mangano in quel capolavoro cinematografico di Giuseppe De Santis, "Riso Amaro" (1949), nel quale si racconta la difficile vita di quelle donne di modesta origine che sciamavano da mezza Italia per un po' di lavoro durissimo e mal pagato.
Certamente non tutte le mondine potevano vantare quel bel paio di cosce tornite della Mangano, ma certamente tutte erano accomunate in un destino di sfruttamenti e sofferenze:
Sciur padrun da li béli braghi bianchi,
fora li palanchi, fora li palanchi,
sciur padrun da li béli braghi bianchi,
fora li palanchi ch’anduma a cà.

e ancora:
Saluteremo il signor padrone
per il male che ci ha fatto,
che ci ha sempre maltrattato
fino all'ultimo momen'.

Poche lire, 30-40 al mese, se tutto andava bene, che si riusciva a mettere da parte strappandole non solo al padrone ma anche al caporale che ti forniva l'alloggio (un pagliericcio nelle stalle) ed il vitto (una zuppa di riso e poco più).
Da aprile a giugno il lavoro imponeva uno stentato riposo e levatacce prima dell'alba: "Quando la svegliarono si guardò intorno sbalordita e disse: — È sempre notte. Infatti non erano ancora le quattro; alle quattro bisogna essere sul lavoro."
E poi lavorare nella nebbia e in quel putridume da far mancare il fiato: "Nanna provò un senso di ribrezzo nell'entrare nella risaia; e quando si trovò coll'acqua fin sopra le ginocchia, ed il capo in quella nuvola bianchiccia che la velava tutta, si sentí mancare il fiato. — Oh Dio! — mormorò. — Mi pare che questa cosa bianca sia la febbre, e che mi entri pel naso, per gli orecchi, per la bocca — e rabbrividiva tutta.
— Eh! Ragazza! Cosa si fa? — Le gridò l'assistente dei lavori."
Eh, già, perchè a contollare le ragazze c'era l'"assistente", una longa manus del padrone che vegliava affinchè non si perdesse tempo.
Le mondine di Porporana
E le donne si piegavano, non solo al suo volere, ma soprattutto a mondare il riso dalle male erbe, aspettando il sorgegere del sole che per lo meno le asciugasse un po'
"Quando il sole venne, un sole di giugno che bruciava come una fiamma, si sentí cuocere il cervello ed arder le carni. Il sudore le scolava giú lungo il collo, le cadeva dalla fronte in grosse goccie, che piombando nell'acqua della risaia, vi segnavano dei cerchi come fossero sassolini. E da quell'acqua stagnante, e riscaldata, esalavano miasmi puzzolenti che sconvolgevano lo stomaco.... Ed a misura che il caldo aumentava, il puzzo delle acque si faceva piú insopportabile....Si rizzò cogli occhi iniettati e le vene della fronte inturgidite dal lungo star china, e disse con profondo sconforto: — Ma è una vita d'inferno!
— Eh! Laggiú, Nanna! Al lavoro! — gridò l'assistente....(Le citazioni sono tratte da "In Risaia" di Marchesa Colombi, Liber Liber).
E l'iconografia delle mondine è sempre quella; la schiena spezzata in due, il capo chino quasi a sfiorare la melma, le gambe ad ammollarsi nell'acqua piena di sanguisughe che ti toglievano, insieme alla vita, la forza, e di malaria, endemica in quei pantani, e le cui febbri ti riducevano pelle ed ossa.
I canti, rilanciati da una parte all'altra della risaia esprimevano il dolore e lo sconforto, ma anche rabbia e rivendicazione sociale:
 
Se otto ore vi sembran poche,
provate voi a lavorare
e troverete la differenza
di lavorar e di comandar. 



Sebben che siamo donne
paura non abbiamo
per amor dei nostri figli
per amor dei nostri figli
sebben che siamo donne
paura non abbiamo
per amor dei nostri figli
socialismo noi vogliamo

Alla sera si cercava un po' di svago e spesso si ballava per dimenticare la durezza del giorno: nascevano così brevi amori stagionali, destinati a lasciare senza speranza l'ingenuo morettino:
Addio morettin, ti lascio, finita è la mondada,
tengo un altro amante a casa, tengo un altro amante, a casa;
addio morettin ti lascio, finita è la mondada
tengo un altro amante a casa più bellino assai di te.


E se questa iconografia è ancora presente in alcuni paesi del sudest Asiatico, da noi in risaia lavorano ormai le macchine e i diserbanti; una vista meno romantica ma più consona alla nosta civiltà.
Il riso così, piantato, mondato e raccolto sfama miliardi di persone in tutto il mondo con le sue innumerevoli varietà, di tutti colori (persino nero) e tutte buonissime.
Centinaia sono le varietà di riso nelle due grandi categorie: long grain (chicco lungo) e rond grain (chicco tondo) le cui differenze sono non solo di tipo "geometrico", ma anche di comportamento alla cottura, in quanto i primi tendono a rimanere sgranati, mentre i secondi tendono a legare tra loro consentendo la mantecatura che è tipica dei risotti.
E qui trova origine la peculiarità tutta italiana che è stata l'"invenzione" del risotto, che non è un prodotto, come il riso lesso tipico delle culture orientali, ma un piatto cucinato che appartiene indissolubilmente alla tradizione gastronomica italiana, del Nord per essere precisi, tra il Piemonte e la Lombardia, per essere più precisi.
Lì è nato - soffritto, tostatura, brodo e mantecatura - e da lì si è arricchito delle integrazioni e delle varianti dettate dalle consuetudini locali, per poter entrare nelle cucine centromeridionali con straordinarie preparazioni "anomale": i supplì romani, la tiella barese, l'arancino siciliano, il sontuoso sartù napoletano, facendo sì che in nessuna cucina del mondo sono sì conosciute ed esaltate, come in quella italiana, le innumerevoli potenzialità e virtù del riso.

Vedi la parte I - dalla scoperta alla coltivazione 

Riso in cagnone 

sabato 17 gennaio 2015

Pollo alle erbe aromatiche e chicchi di melagrana

Che facciamo stasera? Ho del petto di pollo intero, ma vorrei farlo in un modo diverso e soprattutto fresco e leggero.
Frugando sul web e soprattutto su quei blog di cucina che seguo più o meno assiduamente, mi imbatto in questa ricetta "sfiziosa" e veloce di Massimiliano Fattorini, blogger de "La piccola casa": la leggo, la immagino e decido di eseguirla con una piccola variante. 
Per le classiche 4 persone: 
  • 800 gr di petto di pollo un sol pezzo
  • 1 cipollotto o uno scalogno
  • mezzo bicchiere di vino tipo marsala
  • un mix di erbe aromatiche tritate (timo, rosmarino, basilico, maggiorana, origano...)
  • una foglia di alloro
  • i chicchi di mezza melagrana
  • olio extravergine di oliva
  • sale e pepe
La preparazione è facilissima e veloce
  1. Tagliare il petto di pollo a fette spesse 1 cm, quindi a pezzi. 
  2. Affettare il cipollotto finemente.
  3. Versare un filo d'olio e la foglia di alloro in una padella antiaderente e far andare il petto di pollo a fiamma alta per un paio di minuti girandolo spesso,  
  4. Abbassare la fiamma, togliere l'alloro e aggiungere il cipollotto, metà  delle erbe e ancora un cucchiaio di olio, 
  5. Continuare la cottura per cinque minuti, aggiungere il vino e lasciare svaporare
  6. Aggiustare di sale e pepe e terminare la cottura. 
  7. A fuoco spento aggiungere il resto delle erbette, un filo d'olio e le bacche di mezza melagrana. Mescolare per bene e servire

Valore energetico 250 kcal/porzione; il vino che ho scelto è il Greco di Tufo di Mastroberadino

martedì 13 gennaio 2015

Il Riso (parte I - dalla scoperta alla coltivazione)

   Dire "pasta" è come dire "Italia", dire "riso" è come dire "mondo", essendo oggi il consumo di questo cereale così diffuso in tutto il mondo da assumere grande importanza per l'economia e la cultura di vastissime aree del pianeta. 
Riso (Oryza Sativa) - da Wikipedìa
   Pare sia originario del Sudest Asiatico (Indonesia) dove era già noto nel 7.000 a.C., da qui si è spostato nell'Asia e successivamente nel Mediterraneo; il riso proveniente dalla Cina e dall'India, era già oggetto di scambio nel V secolo a.C. in Persia e in Mesopotamia, e se nel 300 a.C. Teofrasto, discepolo di Aristotele, lo cita come pianta esotica, nel I secolo d.C. il medico Discoride prescrive l'acqua di riso come medicamento per i disturbi intestinali, mentre Orazio e Columella ne lodano le benefiche virtù.
   Pressoché ignorato dagli scrittori greci e latini, il riso fu acclimatato in Occidente dagli arabi che ne introdussero la coltivazione in Sicilia e in Spagna.
   Al di fuori di queste zone, il riso era confinato nelle spezierie: nel Centro Nord era venduto nelle botteghe degli speziali insieme alle droghe ed ai prodotti esotici di importazione. 
   Nel Medioevo esso era usato prevalentemente sotto forma di farina: in medicina, Antimo, nel VI secolo lo consiglia ai dissenterici, in cucina veniva utilizzato per ispessire le minestre.
   Ma già nel Quattrocento la sua coltivazione e il suo uso alimentare cominciano ad allargarsi, cominciano ad apparire preparazioni che rappresentano il trait d'union tra l'uso medievale del riso sotto forma di farina e l'uso moderno come piatto a sé.
   Siamo arrivati al XV secolo e precisamente nel 1468, allorquando le prime risaie vennero impiantate a Colto de' Colti ad opera di Ludovico il Moro e del fratello Gian Galeazzo Sforza, che pensarono di sfruttare le frequenti inondazioni del Po per questa coltivazione. Nel 1475  fu proprio Gian Galeazzo Sforza a donare al duca di Ferrara un sacco di riso che venne da lui definito in una lettera "alimento estremamente interessante e meritevole di essere coltivato".
   Nel XVI secolo il riso entra, insieme al mais, nella schiera dei "nuovi alimenti" con cui si tenta di placare la fame contadina. Il cronista bolognese Pompeo Vizani racconta le drammatiche conseguenze della carestia del 1590, quando innumerevoli schiere di contadini affluirono in città per chiedere cibo, essi furono subito ricacciati fuori dalle mura per non compromettere il delicato equilibrio annonario del centro urbano ma, per tenerli buoni fino al nuovo raccolto, fu ordinato "che ogni giorno, in diversi luoghi del contado, a ciò deputati, fossero dispensate quattro oncie di riso per ciascuno di loro".
In Risaia - Angelo Morbelli (1901)
   Il riso così viene visto come cibo per i poveri ed escluso dai ricettari del Cinquecento; nel XVII secolo la coltura del riso viene limitata e, in qualche zona addirittura bandita, a causa delle polemiche sull'igiene ambientale (nel Nord era infatti diffuso il sistema di allagare le risaie per accelerare la crescita delle piante, coltivazioni che erano viste come malsane e pestilenziali).
   Il riso torna ancora in auge nel Settecento come risposta a difficoltà alimentari particolarmente gravi; così come nei paesi orientali, il riso conferma la sua immagine di cibo povero e viene reintrodotto o introdotto per la prima volta in alcune zone del Nord Italia.
   Con la coltivazione intensiva del riso, nasce, attorno al mondo della risaia, il folclore e la figura della mondina, ma ne parleremo poi.

Notizie storiche da "Massimo Montanari e Antonio Capatti - La cucina italiana - Editori Laterza"
         


Vedi parte II - dalle mondine alla tavola               

lunedì 12 gennaio 2015

Passatina di cannellini con gamberi e rosmarino

Si tratta di una preparazione da occasione particolare, in primis perchè si presenta bene e si può fare bella figura e poi perché è buonissima e ne vale la pena. 
La preparazione non è difficile ma un po' lunga - sulle due ore - ma il risultato ripaga delle cure, delle attenzioni e del tempo impiegato.

Immaginiamo una cena con 6-8 persone e allora andiamoci a procurare:
Per la passatina
  • 200 gr di fagioli cannellini secchi
  • 2 patate novelle
  • 1 scalogno
  • 20 gr di pancetta affumicata
  • 3 coste di sedano
  • 1 pomodoro pelato
  • 1 spicchio d'aglio
  • 1 foglia di alloro
  • brodo vegetale
  • 15 cc di olio
  • sale
Per i gamberi
  • 400 gr di gamberi o mazzancolle (2/3 a testa)
  • un cucchiaio di olio
  • 2 rametti di rosmarino
  • sale
La preparazione della passatina:
  1.  Lasciate in ammollo i fagioli per una notte intera con l'alloro e l'aglio in camicia;
  2. Tritate finemente lo scalogno, il sedano e la pancetta e fateli rosolare bene con un poco di olio;
  3. Aggiungete poi le patate e il pomodoro tagliati a pezzi piccoli e lasciate cuocere per qualche minuto;
  4. Aggiungete i cannellini ben scolati, poi il brodo di tanto in tanto e lasciate cuocere a fuoco dolcissimo per 45-50 minuti;
  5. Trascorso questo tempo, si toglie dal fuoco e si passa tutto nel mixer ad immersione.
  6. La crema così ottenuta viene passata al setaccio e rimessa sul fuoco dolcissimo fino ad ottenerre la densità desiderata (una vellutata)
La preparazione dei gamberi:
  1. Sgusciate i gamberi e privateli del filo nero;
  2. Metteteli a marinare con un filo d'olio, un pizzico di sale ed un rametto di rosmarino per circa due ore;
  3. Cuocete i gamberi a vapore;
  4. Tritate il rosmarino, anche quello della marinata e frullatelo con l'olio, compreso quello della marinata, in modo da ottenere un condimento profumato al rosmarino.
Servite la passatina calda, aggiungendo i gamberi e qualche goccia di olio al rosmarino.



Da bere bollicine bianche o rosa.

Qualche nota:
  • La cottura deve essere lenta e dolce in modo che i cannellini possano cuocere bene ed uniformemente.  
  • La passatina non necessita di amidi aggiunti per addensare, sono sufficienti quelli contenuti nei fagioli e nelle patate per dare la giusta cremosità.

giovedì 8 gennaio 2015

La cottura della pasta (metodo Agnesi)

E' stato il grande Gualtiero Marchesi a farmi conoscere, per la prima volta, la cottura della pasta col metodo Agnesi, quello della pasta, per intenderci; il fatto che tanto chef utilizzi questo sistema passivo mi ha incuriosito, l'ho provato e adottato.
Il metodo della cottura della pasta "a fuoco spento" risale alla fine del 700 allorquando
Benjamin Thompson, conte Rumford, si mise a studiare le reazioni termochimiche dei
processi di cottura, stupendosi di come fossero così poco compresi, anche e soprattutto dai cuochi, che li avevano sotto gli occhi tutti i giorni.
Senza entrare in troppi dettagli tecnici, ci basta sapere ed è dimostrato che:
  1. La presenza dell'acqua serve solo ad idratare la pasta e tale processo avviene tanto più velocemente quanto più alta è la temperatura (la pasta si idrata anche con l'acqua fredda, ma non è cotta). 
  2. Intorno ai 60° avviene la gelificazione dell'amido.
  3. Intorno agli 80° si ha la denaturazione del glutine e solo a questo punto la pasta è cotta.
Quindi non è assolutamente necessario che l'acqua di cottura della pasta debbe necessariamente essere bollente; la temperatura di ebollizione dell’acqua dipende dalla pressione atmosferica e questa diminuisce con l’altitudine. Se al livello del mare l'acqua bolle a 100°, a circa 2000 metri di altezza l'acqua bollirà a 93° e gli spaghetti saranno ugualmente cotti a puntino.
Molti grandi chef "stellati" da Massimo Bottura a Gualtiero Marchesi adottano questo metodo "dolce" per cuocere la pasta e anche se qualche parvenu dichiara di averlo scoperto o peggio inventato, il sistema ha più di 200 anni.
Scrive Thompson
tutto il combustibile che viene utilizzato nel farla bollire vigorosamente è sprecato, senza aggiungere un singolo grado al calore dell’acqua, né velocizzare o accorciare il processo della cottura di un solo secondo. Poiché è dal calore, dalla sua intensità e della sua durata che il cibo viene cotto, e non dall’ebollizione dell’acqua che non ha alcun ruolo in quell’operazione.”.
Ovviamente i pareri sono molto discordi, come su tutto in Italia, e qualche blogger definisce "bufala" questo sistema, ma è solo una questione di ignoranza dei fatti, della storia, della chimica e della termodinamica.
Personalmente ottengo risultati equivalenti al metodo "classico", e non ho trovato, nei detrattori, alcuna argomentazione valida o scientificamente corretta per mantenere il metodo vecchio, che quindi ho abolito; oggi utilizzo solo questo sistema per cuocere la mia pasta.


Il metodo è di una semplicità stupefacente e nella sua semplicità sta la sua genialità.
Consiste in questo: 
  1. la pasta va calata nell'acqua bollente e normalmente salata (10 gr/litro);
  2. si fa riprendere il bollore (circa 2 minuti);
  3. a questo punto, si chiude il fuoco e si copre la pasta con un coperchio;
  4. la si lascia cuocere per il tempo rimanente, a fuoco spento e coperta.

  • il tempo di cottura rimane praticamente lo stesso;
  • non viene disperso il glutine (parte proteica);
  • non vengono dispersi gli amidi (carboidrati);
  • si controlla meglio lo stato di cottura della pasta;
  • si risparmia energia (30-40% in meno),
quindi la pasta è più saporita, più nutriente e l'acqua rimane più limpida; basta una semplice prova per convincersene.
La buona riuscita del sistema dipenede da alcuni fattori:
  1. La buona qualità delle pasta (se rilascia troppo amidi tende ad incollarsi e bisogna agitarla vigorosamente prima di corprire con il coperchio):
  2. la pentola non deve essere troppo piccola, in rapporto alla pasta, perchè la temperatura dell'acqua scenderebbe troppo velocemente al di sotto gli 80°;
  3. il coperchio deve essere ben ermetico per non lasciare sfuggire il vapore e con esso il calore;
  4. di conseguenza non si deve scoperchiare continuamente la pentola per controllare la cottura. 
 Sempre a proposito della cottura della pasta va ricordato:
  • la pasta va cotta sempre al dente: è più buona, più nutriente e più digeribile;
  • la pasta va curata con grazia e gentilezza, accarezzata insieme al condimento, mai spadellata di forza con il classico esibizionismo macho da tv;
  • l'acqua della pasta è miracolosa: aiuta a diluire un sugo troppo asciutto senza alterarlo, è uno sgrassatore naturale per piatti e pentole troppo unti, bevuta fredda è ricca di sostanza nutritive e sali minerali ed ha un sapore delizioso, ci si può impastare la farina per la pizza, può essere usata come base per un brodo o una zuppa, può servire per l'ammollo dei legumi, per innaffiare le piante, per farsi un pediluvio, ecc, ecc.
A questo punto ogni piatto di pasta sarà un successo, l'importante però è che la pasta sia di qualità: italiana (possibilmente di Gragnano), trafilata al bronzo (rugosa), essiccata naturalmente e lentamente (colore chiaro) e non vetrificata (liscia e giallo ocra) come certe famose paste industriali.
Buon appetito