giovedì 25 ottobre 2012

Il tempo e il ragù


« Il tempo infatti trasforma la natura del mondo, ed è legge che una nuova condizione s'avvicendi sempre alla precedente [...] tutto si trasforma, la natura costringe ogni cosa a modificarsi e a mutare. Così dunque il tempo modifica la natura del mondo e la terra passa da uno stato all'altro, impotente a produrre ciò che prima poteva, ma capace di creare quel che prima non poteva. » ( Lucrezio - De Rerum Natura, libro V, versi 828- 836 passim).


Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. L'essenza stessa del tempo conduce alla distinzione tra passato, presente e futuro, e tale distinzione si rende evidente dal trasformarsi delle cose.


Il tempo non è come lo svolgersi di un film, dove è possibile rallentare lo scorrere delle immagini, fermare un'inquadratura o rivedere le scene all'indietro, il tempo punta inesorabilmente in avanti verso una trasformazione irreversibile delle cose, che può evolvere in qualcosa che prima non sarebbe stato possibile ottenere.
La materia è, esiste e contemporaneamente muta, si trasforma, ma questa costatazione, apparentemente ovvia, possiede in sé una contraddizione, in quanto l'essenza di un oggetto è garantita dal suo rimanere uguale nel tempo, il divenire, invece, presuppone la trasformazione, ovvero la diversità, per cui esiste un "prima" e un "dopo", cioè un "intervallo" di tempo. 
Passando dalle altezze di una considerazione filosofica, alle terrestri considerazioni culinarie,  prendiamo, casualmente, dei buoni ritagli di carne, della cipolla, del pomodoro, dell'olio eccellente e mescoliamoli insieme; quello che otteniamo è qualcosa che, neppure attraverso la più brillante o distorta fantasia, può paragonarsi a quello che diventerà il Ragù.
Ma se ai precedenti ingredienti aggiungiamo quello più importante, il tempo, allora, quell'accozzaglia di componenti, diventa la somma costruzione del Ragù, un rituale nel quale la semplice costruzione di un cibo si trasforma nella cattedrale della religione dedicata al tempo. 
Certo tutti cibi cucinati hanno bisogno di un tempo di cottura, ma per il ragù il tempo travalica il concetto di "quanto basta" e si prolunga verso una dimensione della durata che giunge fino alla memoria storica della cucina napoletana fondendosi con il robusto sapore della tradizione.
Per ottenere un buon ragù la cottura, dolcissima e lentissima, deve durare ore, durante le quali gli ingredienti cessano di essere quello che erano prima, trasformandosi in una nuova, unica sublime sostanza.
Il ragù quindi non è un cibo per il corpo, ma un nutrimento dell'anima, che coinvolge in tutte le fasi della preparazione, e ad esso va, necessariamente, dedicata l'attenzione che merita.

Eduardo De Filippo nella commedia "Sabato, domenica e lunedì", ufficia la liturgia della preparazione del ragù nei tre giorni dedicati alla celebrazione del rito: al primo giorno, sabato, si "stordisce" la carne per conservarne i preziosi succhi, il secondo giorno è dedicato alla preparazione, cottura e consumazione del "pranzo domenicale", mentre al terzo giorno vengono utilizzati gli avanzi della domenica per compiere fino all'ultimo il sacrificio.
Quindi un rito idolatrico che viene ufficiato da ogni famiglia napoletana esagerandone spesso la parte dedicata al tempo: sei ore, otto ore, no, dieci ore...
Come sottolinea Raffaele Bracale, dotto conoscitore della cucina napoletana e fervente custode della sua tradizione: "il ragù napoletano è molto diverso da tutti gli altri ragù di carne, pure ottimi, di cui è ricca la cucina italiana. E' diverso per gli ingredienti, per la lunga preparazione, per l’estrema attenzione che richiede, [...] ed infine per l’aroma che purtroppo sempre piú raramente si diffonde, il sabato sera, nelle scale dei palazzi di Napoli, dove ahimè sono giunti gli anatemi di tutti i nutrizionisti mediatici che hanno convinto anche i poveri napoletani a bandire dal loro desco domenicale questa sontuosa salsa per sostituirla con insipide salsine bollite, senza nerbo e/o gusto, insipide e prive di grassi animali, salsine che mai e poi mai possono convolare a felici nozze sulla tavola domenicale con i tronfi maccarune ‘e zite spezzati a mano o, meglio ancora, con duttili pacchere magari ‘mbuttunate!
Fortunatamente ci sono ancora dei napoletani d’antan, che – come carbonari o cospiratori del tempo andato continuano a parlare e talvolta a preparare mitici ragú come il Cielo comanda!"
E ancora, leggendo Giovanni Artieri, il ragù è: "una distillazione del lacerto di sfilatura di annecchia (la parte morbida e succosa del lombo di vitella di un anno di età) d'una fluida entità gustativa, non definibile né come salsa, né come estratto: un nepente [1] in cui viene distrutta la morbida natura del pomodoro, sia la crudezza vitale del muscolo sanguigno, sia l'ovvio sentore del soffritto basilico di timida cipolla. Il ragù descrive le virtù del fuoco lento, della pazienza umana (e perciò se ne devolve il compito al capo famiglia, in grado di accettarlo), della sensibile dosatura dei gusti e dei tempi"
Giovanni Artieri - Lo Stivale allo spiedo - Canesi Editore.

Ragù napoletano

[1] - bevanda che, nella mitologia greca, attenuava i dolori fisici e faceva dimenticare le sofferenze spirituali