lunedì 16 aprile 2012

La (Ri)scoperta delle "Torzelle"

Sui banchetti della CIA o della Confagricoltura si trovano spesso ortaggi di quelli “dimenticati”, come la torzella.

 

       La torzella è uno dei più antichi tipi di cavolo che si sono sviluppati nel bacino del mediterraneo, infatti è detta anche “cavolo greco”, oltre che “torza riccia”. Oggi è una pianta presente soprattutto nella zona dell’Acerrano Nolano, in provincia di Napoli. 
Del recupero della torzella, se ne è occupato il Programma per il recupero e valorizzazione del germoplasma orticolo campano dal 2004. Nel 2006 si è riusciti ad ottenere la stabilità della varietà di questo prodotto campano molto peculiare che così, da più vecchio cavolo del Mediterraneo, è entrati di diritto nell'elenco dei prodotti tipici  agroalimentari della Campania.
I germogli vengono raccolti per essere consumati sia allo stato fresco che cucinati in appetitose preparazioni della cucina tradizionale, e non, napoletana. 
La torzella presenta foglie carnose, ricce, di colore verde scuro ed è molto resistente al freddo; possiede grandi capacità nutritive ed un sapore buonissimo.
Una porzione di torzelle copre il fabbisogno giornaliero di vitamine A e C di un adulto, il 13% di calcio e un buon apporto di potassio ed enzimi digestivi; ricchissima di antiossidanti e di glucosinolati, la torzelle, come tutte le crucifere, svolge una importante e valida azione preventiva anticancro.
Qualche spunto per assaggiarle

Torzelle con olive capperi e pinoli

Minestra di torzelle all'olio

mercoledì 11 aprile 2012

La razza del "monatto"

     Qualche anno fa, insofferente al traffico, allo smog e alla convivenza con una città che mi è diventata pesante da sopportare, ho preso la decisione di trasferirmi a Bacoli, un piccolo centro sul mare ad una ventina di chilometri da Napoli, in cerca di distensione e di ritmi di vita più naturali, dei quali sentivo la necessità.
     Bacoli, insieme a Pozzuoli, occupa buona parte dei Campi Flegrei, i Campi Ardenti, dove i nostri antenati greci avevano collocato l'accesso agli inferi, per cui la zona è ricchissima di storie e leggende e soprattutto di siti archeologici.
     La cittadina è caratterizzata dalla presenza di Capo Miseno, il promontorio che chiude la omonima baia in cui era stanziata la flotta navale romana comandata da Plinio il Vecchio (il quale corse a portare aiuto alle città di Pompei ed Ercolano, colpite dalla disastrosa eruzione del Vesuvio del 24 ottobre (non più agosto come si pensava) del  79 DC, e vi trovò la morte per asfissia).
     Da qualche mese, alla nostra porta, verso le otto del mattino, bussa un pescivendolo che vende la sua merce con un furgone; lo chiamo il “monatto”, a causa delle frequenti "sviste" sulla freschezza del pesce che ci propone.
     Una volta regolato e messo a punto il rapporto col "monatto", c’è la possibilità di mangiare del pesce fresco e spesso “diverso” da quello che si trova sui banchi delle pescherie tradizionali.
     La settimana scorsa mi convinse a prendere, per 30€, una razza chiodata da un chilo e mezzo, freschissima, e quattro murene intorno al chilo l’una, ancora vive ed aggressive, alle quali mi sono ben guardato di dare loro confidenza se non dopo averle lasciate per qualche ora nel freezer.
     Archiviato facilmente il problema di come cucinare le murene, in genere fritte o in umido, restava insoluto quello della cottura della razza, un pesce non troppo praticato nella letteratura culinaria in mio possesso.
    Ho però casualmente trovato una vecchia preparazione descritta dal prof. Giorgio Bini, gastronomo e  ittiologo di fama internazionale, autore di numerosi libri sulle specie marine dei nostri mari, una ricetta, rispolverata della tradizione romana, che mi ha attratto per la tipicità degli ingredienti.


Pasta e broccoli col brodo di arzilla


     Arzilla si chiama a Roma, e in generale nel Lazio, la razza. La migliore è quella chiodata (Raja clavata), ma può andare bene la “quattrocchi” o la bianca, purché fresca (le razze tendono ad assumere uno sgradevole odore di ammoniaca se non sono fresche), della razza sono commestibili solo le "ali" ed il fegato.
     La razza è un pesce cartilaginoso quindi le “lische” si dissolvono con una prolungata cottura e danno una ricca consistenza al brodo.


     Procuriamoci quindi, per 5-6 persone:

  • una razza chiodata da 1 chilo e mezzo, 
  • qualche spicchio di aglio, 
  • un paio di acciughe sotto sale, 
  • prezzemolo abbondante, 
  • concentrato o passata di pomodoro, 
  • ½ kg di broccolo romano (o barese)
  • 300 gr di pasta lunga (trenette, vermicelli, fettuccine), rigorosamente spezzata a mano
  • olio, sale e pepe.
Preparazione un po' lunga ma ne vale la pena

  1. Mettiamo quindi la razza, pulita, privata della coda e divisa in 3-4 parti in una pentola, con acqua bastante a coprirla o poco più, insieme a 3-4 spicchi di aglio sbucciato. Portiamo a bollore e lasciamola lì per un paio d’ore.
  2. Quando il brodo è quasi pronto, laviamo le acciughe, le dilischiamo e le schiacciamo nel mortaio col prezzemolo, fino a formare una pasta omogenea.
  3. Prendiamo quindi una pentola capace (che dovrà contenere i broccoli, il brodo e la pasta), scaldiamo un po’ d’olio e facciamo soffriggere leggermente 2 spicchi di aglio schiacciati e del peperoncino.
  4. Ad aglio biondo, lo leviamo, aggiungiamo la pasta di acciuga e prezzemolo e lasciamo insaporire a fuoco bassissimo per non rendere amarognola l’acciuga.
  5. Togliamo il peperoncino e uniamo il concentrato di pomodoro (1-2 cucchiai) diluito in poca acqua, oppure 100-150 cc di passata di pomodoro e facciamo andare per qualche minuto.
  6. Aggiungiamo le cimette dei broccoli e facciamole cuocere al dente.
  7. A questo punto andrebbe utilizzato il solo brodo di razza, filtrato, ma poiché il profumo di mare era intenso, mi sono chiesto se non valesse la pena di salvare anche la carne della razza, se non fosse stato troppo complicato. Fortunatamente la razza può essere pulita facilmente, ma pazientemente, levando la pelle (dura e abrasiva) e le cartilagini interne.
  8. Ottenuta quindi la carne, tra l’altro di ottimo sapore, anche se la consistenza e l’aspetto non sono troppo invoglianti, l’ho inserita nel frullatore insieme al brodo filtrato, ottenendo una crema liquida che ho versato nella pentola dei broccoli.
  9. Una volta recuperato il bollore, uniamo la pasta e cuociamo al dente. Saliamo pepiamo e serviamo in piatti fondi.
Foto di provenienza web
     
Ci abbino una Falanghina dei Campi Flegrei fredda al punto giusto per completare l’opera.

La ricetta, apparentemente laboriosa, è in realtà molto semplice ed il gusto è eccezionale, contemporaneamente delicato e consistente, perché si abbinano sapientemente i profumi della terra e quelli del mare, per un risultato che va oltre le normali aspettative e ripropone l’uso di prodotti poveri e trascurati, come la razza, ma di grande e originale gusto. Due considerazioni:
  1. in molte ricette, il brodo di razza viene ottenuto facendo bollire, insieme al pesce, anche il classico mix di carota, sedano e cipolla. Nulla questio, il brodo si insaporisce, ma, a mio parere, perde di freschezza e il gusto di mare si disperde coperto da sapori più forti;
  2. molti utilizzano solo il brodo di razza, altri uniscono al brodo la carne sfilettata da aggiungere alla minestra.
     Preferisco la seconda soluzione perché l'abbinamento del gusto terricolo dei broccoli e quello marino del pesce regala un'ampiezza di aromi che non si raggiungerebbe con la prima soluzione, se poi il brodo e il pesce vengono frullati insieme, la minestra diventa più cremosa e consistente senza perdere di profumo.


venerdì 6 aprile 2012

La zuppa di cozze del Giovedì Santo


     Avevo 13 anni quando misi per la prima volta gli occhiali. Era il giovedì santo di molti anni fa e l’ottico Gaipa in via Carlo De Cesare, mi consegnò un fiammante paio di occhiali dalla elegantissima montatura color grigio acciaio, oggi si direbbe da nerd, secchione, attribuzione assolutamente falsa per quanto mi riguardava, perché era solo la moda del 1958.
Il giovedì santo vi è, allora come adesso, la tradizione di fare i “sepolcri”, cioè rendere omaggio alla Eucarestia, allestita nelle varie chiese. 
Nel tardo pomeriggio c’era stata la celebrazione della Messa in “Cena Domini”, cioè la Cena del Signore - l’"Ultima Cena" che Gesù tenne insieme ai suoi Apostoli - dopo la quale si ritirò nell'Orto degli Ulivi.
     Comincia così la "Passione" che la Chiesa ricorda il Venerdì Santo; i riti liturgici del Giovedì Santo si concludono con la reposizione dell’Eucaristia in un cappella laterale delle chiese, addobbata a festa per ricordare l’Istituzione del Sacramento; tutto il resto del tempio viene oscurato, in segno di dolore perché è iniziata la Passione di Gesù; le campane tacciono, l’altare è disadorno, il tabernacolo vuoto con la porticina aperta, i Crocifissi coperti.
La tradizione prescrive che i sepolcri debbano essere di numero dispari e non meno di tre.
Così ci si dava appuntamento in via Toledo, angolo via Carlo De Cesare, ci si intruppava in due o più famiglie, capogruppo zio Gigino, e si cominciava lo “struscio”, il passeggio sulle strade prive di traffico automobilistico, dove si faceva sfoggio, ai primi tepori della primavera, dei primi abiti leggeri. Il tragitto era sempre lo stesso anno dopo anno: la chiesa di San Francesco di Paola in piazza del Plebiscito, quella di San Ferdinando e poi quella di Santa Brigida.
Da buoni napoletani, nel nostro cuore è consolidata una pacifica convivenza tra il sacro ed il profano, con una leggera prevalenza di quest'ultimo, pertanto, espletate le formalità del rito dei sepolcri col minimo sindacale di tre, la seconda parte della serata si prospettava decisamente più divertente.
Da piazzetta Augusteo, la Funicolare Centrale ci portava al Vomero e raggiungevamo la vicina pizzeria Gorizia in via Bernini dove finalmente si poteva mangiare la tipica cena del Giovedì Santo: Zuppa di cozze piccante con polpetielli e maruzzielli (lumachine).
La tradizione andava rispettata ed ogni anno il rituale si ripeteva identico a se stesso: struscio, sepolcri e cozze. Non si transigeva; al più, per noi giovani, era concessa la pizza per dare supporto alla fame che, come da tradizione, stazionava in permanenza. Ma per il resto era rigorosa tradizione.

Per la ricetta della zuppa di cozze, potete provare questa, lunga ma ne vale la pena.

Zuppa di cozze del giovedì santo


Per 4-5 persone regolatevi con:
  • 1 polpo verace da 1 chilo e mezzo circa, 
  • 1,5-2 kg di cozze, 
  • 300-400 gr di maruzzielli (lumachine di mare), 
  • olio piccante di peperoni (300-500 grammi), 
  • una-due "freselle(fette di pane biscottato) a testa , 
  • aglio e peperoncino quanto vi piace.
  1. Lessate il polpo per una trentina di minuti, scolatelo, tagliatelo a pezzetti e tenetelo da parte. Non buttate l’acqua.
  2. Fate aprire velocemente le cozze in una pentola col coperchio (devono rimanere morbide), sgusciatene una parte, le altre le lascerete intere e tenetele da parte. Non buttate l’acqua.
  3. Fate soffriggere in un tegame uno spicchio d’aglio e un peperoncino tagliato a pezzetti, toglieteli quando l'aglio è biondo, e aggiungete le lumachine che avrete lasciato spurgare in acqua per qualche ora, cambiando spesso l’acqua. Fate cuocere per qualche minuto e aggiungete del prezzemolo tritato.
  4. A questo punto unite l’acqua del polpo e quella delle cozze insieme, dopo averle filtrate e mettetela a bollire.
  5. Sul fondo di una larga ciotola poggiate le freselle, bagnate con un bel mestolo o più dell’acqua bollente del polpo e cozze, aggiungete le cozze, sgusciate e no, le lumachine, il polpo e infine irrorate il tutto con abbondante olio piccante di peperoni ('o russ').
Il tutto deve avvenire velocemente e possibilmente vicino al tavolo dove si mangerà, perché non si disperdano i profumi di un piatto che va gustato in religiosa concentrazione.
Da bere: Birra o un vino rosso di medio corpo come 'o Per' e Palummo (Piedirosso d'Ischia o dei Campi Flegrei).


Noterelle a margine

  • Il pomodoro, in ogni sua forma, non è ammesso, anche se la maggior parte delle ricette che si trovano in giro ne fanno uso, ma la tradizione prescrive che il "rosso" venga dato solo dalla salsa piccante di peperoni.
  • Optional: una spolverata di bottarga di muggine e qualche fogliolina di maggiorana fresca, inseriscono un diversivo di grande aroma e intensità (da provare).
  • Un consiglio: poiché la porzione fornisce oltre 500 kcal, ed è sbilanciata perché priva di verdure, il piatto andrebbe accostato a delle verdure e della frutta fresca e basta.
  • In alcune preparazioni "da ristorante", il piatto viene arricchito con vongole, fasolari e scampi e quindi diventa sontuoso da vedere, ma è una licenza poco ortodossa, dedicata ai turisti, che fa perdere la tipicità e semplicità del piatto, che è buonissimo così com'è.

Olio piccante di peperoni


Occorre acquistare la conserva piccante di peperoni.
Un buon dosaggio prevede 3 bei spicchi di aglio, 1/2 litro di olio extravergine, e 150-200 gr di concentrato di peperoni.
  1. Fate soffriggere a fuoco bassissimo l'aglio schiacciato o tagliato a lamelle sottili, aggiungete il concentrato di peperoni e cuocete sempre a fuoco bassissimo per 40-50 minuti, rimestando continuamente per evitare che il composto si attacchi al fondo. Attenzione, i vapori sono irritanti per gli occhi.
  2. Quando l'olio salirà tutto a galla e avrà un bel colore rosso ambrato, spegnete il fuoco e lasciate raffreddare, poi filtrate con un canovaccio bianco pulitissimo e imbottigliate. 

Si mantiene per mesi per cui vale la pena di prepararlo in abbondanza (2-3 litri alla volta) per utilizzarlo all'occorrenza anche sulla pasta e fagioli e dove vi sembra che possa andare.