venerdì 23 novembre 2012

La sacra pizza (2): Deuteronomio


     Il Signore, che dopo la cacciata dell'uomo se ne era stato imbronciato in disparte, si interessò alla "cosa" e pensò che essa non poteva essere cotta sperando solamente nelle pietre arroventate dal sole e fu così che si presentò all'uomo in uno dei suoi più riusciti travestimenti: un "cespuglio in fiamme" e disse : "UOMO, TI HO PORTATO IL FUOCO!" e l'uomo che sempre meno capiva il comportamento del Signore, dopo qualche ustione e qualche bestemmia, una volta compreso come maneggiare questo fuoco e tenerlo a distanza, lo usò anche per cuocere i cibi.
     Passarono i secoli e tutto il mondo imparò a cuocere la "cosa"; sembra che gli egizi, per primi, avessero inventato il "forno", era a forma conica e, mentre all'interno si metteva il fuoco, la "cosa" veniva appiccicata sulla superficie esterna arroventata fino a quando, cotta, cadeva a terra, dopodiché veniva "cotta" dall'altra parte.
     Presso greci, persiani[1] e romani[2] la "cosa" veniva cotta in "forni" di pietra chiusi e arroventati, e arricchita di vari sapori con olive, "ciccioli" di maiale ed altro (l'antenata della pizza e della focaccia) oppure con uvetta, pinoli e canditi (l'antenata del panettone, del pandolce ecc.) mentre le popolazioni più arretrate come quelle del nord del pianeta: celti, siberiani e pellerossa nordamericani continuavano ad utilizzare la farina impastata con acqua e arrostita su pietre arroventate (l'antenata delle gallette e dei cracker)  finanche in tempi recenti[3].
      All'incirca tra il 1300 e il 1200 a.C. un gruppo di profughi turchi guidati dallo scafista Enea, scampati all'incendio della loro città, approdarono, dopo varie peripezie, con il loro barcone in Italia dove, come ci narra Tito Livio, fondarono la città di Lavinium (e poi Roma); più poeticamente Virgilio, nell'Eneide, ci descrive la fame di questi extracomunitari che morivano di inedia e...

Altro per avventura allor non v'era
di che cibarsi. Onde, finiti i cibi,
volser per fame a quei lor deschi i denti,
e motteggiando allora: «O - disse Iulo -
fino a le mense ancor ne divoriamo?» 

(Eneide, Libro VII, vv. 175-179, trad. di Annibal Caro).

... evidenziando il fatto che le "mense" non erano altro che i piatti, fatti di una pasta di grano cotto e croccante, su cui si poggiava il cibo vero e proprio, come una focaccia.    
      La "cosa" fu chiamata in vari modi e non stiamo qui a raccontare le evoluzioni del nome di questa pietanza; altri più dotti di me hanno speso buona parte del loro tempo per rintracciare le etimologie del nome di questo piatto[4], ma il termine che alla fine si è imposto su tutti è: pizza, utilizzato così in tutto il mondo.
     
     Allora il Signore vide che la "pizza" era una cosa buona e, non volendo lasciare tutto il merito agli uomini, intervenne, per migliorarla, alla sua maniera e cioè con due miracoli:
  1. Mandò in Italia, dopo la caduta dell'impero romano, i longobardi, un popolo di origine celtica, i quali si riportarono a casa la nostra civiltà, così evolsero, ma ci lasciarono la bufala (l'animale), che ben si acclimatò nel basso Lazio e in Campania, fornendo il latte per la fabbricazione della mozzarella, la Regina dei "latticini".
  2. In epoca moderna, fece scoprire il "nuovo mondo", al solo scopo di portare in Europa l'elemento principe della pizza: Sua Maestà il pomodoro.
      Dopo le iniziali diffidenze, il pomodoro fece il suo ingresso trionfale nella cucina italiana e, in particolare, napoletana e la pizza diventò, verso la fine del '700, proprio a Napoli, quella che oggi conosciamo, grazie ai due "miracoli" del Signore; per questo motivo  quello Napoletano fu il popolo eletto dal Signore e la Pizza il nuovo Verbo[5].


[1] Salamon Rashid - "Versetti pizziatici"- II Edizione - Fish & Chips Editori - Londra 1992
[2] Hìkef Fòrmel Baccalònen - "Diario di una grande scoperta" - Salmon & Stock Editori - Reykjavik 1997
[3] Cfr. il film "Corvo Rosso, non avrai il mio scalpo" - Sidney Pollack - 1972
[4] Charles McAlbion "La pizza Celtica" - Introd. di Fra Carolo de' Cherubinis - De Angelis Editore - Roma 2001
[5] Peppino di Napoli - "Ma qua' Pizza Celtica" - Edizioni P.O.T.T.A - Napoli 1995

Il paradosso degli spaghetti al pomodoro

   I romani lo chiamavano Mare Nostrum, il nostro mare, perché apparteneva a loro in tutti i sensi avendone essi conquistato ed occupato tutte le terre che vi si affacciavano: solo le navi Romane e dei loro alleati potevano solcare le onde di quel mare che per caratteristiche e ubicazione è certamente unico sul pianeta.
     Il clima è abbastanza mite in tutti i mesi dell'anno, basti pensare alla enorme differenza di temperatura invernale tra Napoli e New York che pure giacciono sul medesimo parallelo - il quarantesimo -, mentre la navigazione è abbastanza agevole; le maree sono di piccola entità, le terre abbastanza vicine e quindi facilmente raggiungibili, gli scambi molto facilitati, i prodotti ittici di qualità eccelsa.
     Insomma, il Mare Nostro presenta tutte le caratteristiche per essere stato il ventre dal quale sono nate grandi civiltà, il centro di un sistema di raccordo tra vari paesi, un ponte verso l'Africa, l'Asia e successivamente le Americhe.


    
 La centralità del Mediterraneo è un attrattore culturale e commerciale: sete, lane, ortaggi, frutta, spezie, convergono dall'Africa e dall'Oriente nel mediterraneo; successivamente l'espansione araba contribuisce ad accrescere il grande patrimonio socio culturale dell'area, avvicinando paesi lontani come la Persia, l'India e la Cina alle culture europee, e ancora più di recente l'apporto delle colonizzazioni delle grandi nazioni mediterranee, introducono nell'area prodotti che hanno modificato radicalmente il modo di alimentarsi dei paesi del Mediterraneo.
     L'Italia, a causa della sua posizione baricentrica è stata ed è tuttora il ponte di transito di popoli e di prodotti da e per l'Europa, ma questi passaggi hanno lasciato una traccia indelebile nella cultura della nostra nazione, e ne hanno fatto un paese unico al mondo per la varietà e quantità di interessi culturali ed enogastronomici.
     Negli anni cinquanta, lo scienziato americano Ancel Keys (1904-2004) si fece promotore dell'ampio programma di ricerca noto come Seven Countries Study e autore del libro Eat well and stay well, the Mediterranean way, inventandosi di fatto il termine "dieta mediterranea", una definizione abbastanza superficiale ed imprecisa per definire un sistema alimentare che coinvolge ben 27 paesi diversi: quindici europei (Gibilterra, Spagna, Francia, Montecarlo, Italia, Malta, Slovenia, Croazia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Albania, Grecia, Cipro, Akrotiri e Dhekelia, Cipro Nord), cinque asiatici (Turchia, Siria, Libano, Israele, Palestina) e sette africani (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Ceuta e Melilla), il che vuol dire una tale molteplicità di usi, costumi e tradizioni nelle quali la "storia" ha assunto un ruolo determinante, costruendo tante "diete mediterranee" quanti sono i paesi che vi si affacciano, diete che oltretutto si sono modificate nel tempo e che spesso utilizzano elementi che non sono affatto - in origine - "mediterranei", ma che derivano proprio da quegli scambi interculturali che vedono il mediterraneo protagonista.
      Lontani nel tempo giungono prodotti come il pane, il vino (bandito successivamente nei paesi arabi), l'olio di oliva, l'agnello, l'aglio, la cipolla. Altri antichi sapori, come il garum, sono scomparsi, altri si sono affermati in epoca recente come la melanzana ed il carciofo (di provenienza araba) e il pomodoro e il fagiolo (di provenienza americana).
     Di conseguenza parlare di "dieta mediterranea", nel senso di origine dei prodotti, è assolutamente improprio; basti pensare al prodotto principe della cucina italiana, quello che maggiormente la caratterizza: gli Spaghetti al Pomodoro.
    Sembra un paradosso ma in realtà nessuno degli ingredienti di questo piatto tipicamente italiano, trae origine dall'Italia: derivano l'olio dalla Grecia, il pomodoro dalle Americhe, il basilico e la pasta dall'Asia.
     Ma il paradosso è solo apparente perché, in concordanza con Massimo Montanari, sebbene le radici del piatto siano aliene all'Italia, pur tuttavia l'identità del prodotto è fortemente italiana perché i modelli ed i valori che caratterizzano quel piatto sono "nostri".
     Le radici contribuiscono a creare un'identità, ma non sono l'identità che, al contrario, partendo da quelle radici, si consolida con gli usi, le tradizioni e la "storia" di ogni paese.

Spaghetti al pomodoro e basilico

venerdì 2 novembre 2012

La Sacra Pizza (1): Genesi


     In principio era il Caos e Dio disse: "?" e voleva dire: "MÒ CHE FACCIO CON QUESTO CASINO?", e fece il cielo e le stelle, il mondo, le montagne e i mari; e popolò di animali la terra, di uccelli il cielo e di pesci il mare. 
     Ma Dio si accorse che mancava qualcosa e inventò il Verbo, guardò il Creato e disse: "VA!" e voleva dire: "NON VA ANCORA BENE!"; allora sputò per terra e dalla terra nacque l'uomo il quale asciugandosi il viso disse: "Accuminciammo!" e voleva dire: "Incominciamo bene! [1]".
     L'uomo guardò Dio e disse; "Sei?" e voleva dire: "Chi cazzo sei?" e Dio guardò l'uomo e disse: "SAREBBE SEI? ..... SONO!" e voleva dire: "COME SAREBBE "CHI CAZZO SEI?" IO SONO IL SIGNORE DIO TUO!" ma l'uomo che non capiva cosa volesse dire, non solo non rimase impressionato, ma non se fregò per niente.
     E Dio, allora, per dimostrare la Sua potenza ed ingraziarsi l'uomo creò la donna, la quale guardando l'uomo disse:"E'?" e voleva dire "E' tutto lì?"
     Allora Dio decise che mancava ancora qualcosa e inventò il sostantivo, l'aggettivo, il pronome, l'avverbio, la preposizione e la congiunzione; e fu di nuovo il Caos.
     L'uomo incominciò a parlare in tutte le lingue e il Signore, pur essendo quello che era, faceva fatica a capirlo, figuriamoci gli uomini tra di loro.
     E allora Dio, che non poteva dire parolacce in prima persona, mandò l'arcangelo Gabriele con la spada fiammeggiante che disse: "CI AVETE ROTTO I COGLIONI!", e voleva dire "NON SE NE PUO' PIU' DI VOI UMANI, ANDATE A LAVORARE COL SUDORE DELLA FRONTE!" se ne andò, maledicendo l'uomo.
     E l'uomo maledetto dal Signore andò ramengo per il mondo e lavorò la terra col sudore della propria fronte e la seminò, nacque così il grano, il mais, il riso o il farro a seconda dei posti.
     L'uomo rimase soddisfatto di quello che aveva fatto e subito assaggiò il frutto del proprio lavoro e disse: "Puah!, mérde, shit, Struntz, merda, ke-skiph-hez, ka-kka, te- pos-sìn, ghe sghifo, naka-kata etc…" a seconda della lingua del posto.
     E anche la donna assaggiò il frutto del lavoro dell'uomo e disse: "Te l'avevo detto io che sarebbe stato uno schifo; tu non mi stai mai a sentire, fai sempre di testa tua; come puoi pensare di lavorare la terra col sudore schifoso della tua fronte, ci voleva l'aratro o il trattore; ah, ma perché ho sposato un imbecille che non sa neanche inventare una vanga, me lo diceva mia madre, etc..." (tralasciamo per brevità la traduzione nelle altre lingue, tanto il concetto non cambia).
     Allora l'uomo prese un grosso masso e lo scagliò verso la donna, ovviamente la mancò, ma spiaccicò il frutto del proprio lavoro e vide che ne usciva una farina; cautamente l'assaggiò e disse: "Puah!, mérde, shit, Struntz, merda, ke-skiph-hez, ka-kka, te-pos-sìn, ghe sghifo, naka-kata etc…" a seconda della lingua del posto.
     La donna, sdegnata, si astenne dal commentare ulteriormente, temendo che l'uomo aggiustasse la mira, si allontanò e da quella notte rifiutò di farsi conoscere dall'uomo.
     Durante la notte piovve e l'acqua si mescolò a quella farina e ne venne fuori una pappetta immonda e la pappetta lievitò, si gonfiò e crebbe fino a raggiungere la dimensione di un pallone.
     Al mattino l'uomo si svegliò, incazzato come una biscia, perché non aveva potuto conoscere la donna, e vide il frutto del proprio lavoro divenuto un pallone; cautamente si avvicinò e ancor più cautamente l'assaggiò ma tornò a ripetere: "Puah!, mérde, shit, Struntz, merda, ke-skiph-hez, ka-kka, te-pos-sìn, ghe sghifo, naka-kata etc…" a seconda della lingua del posto. L'uomo  deluso per tanto lavoro finito in pappa spiaccicò, con un bastone, quella "cosa" sulla pietra e giurò che mai più avrebbe seminato col sudore della propria fronte e se ne andò a caccia; era più sicuro.
     Il sole arroventò le pietre e nel pomeriggio la donna, passando per il luogo dove giaceva la "cosa" spiaccicata, vide che si era cotta e sentì che aveva un profumo accettabile, l'assaggiò e disse: "Bah, boh, beh, etc…" a seconda della lingua del posto e pensò che se fosse stata insaporita con delle bacche e del grasso, forse qualcosa se ne poteva ottenere.
     Qualche giorno dopo presentò all'uomo la novità che aveva inventato, la "cosa insaporita", l'uomo l'assaggiò e disse: "Mbé, quasi-quasi, good, buono, gut, Se-po’-fah, tran-cin, a me piagere, lek-kor-niah, etc…" a seconda della lingua del posto, ed era contento perché avrebbe fatto la pace con la donna e che da quella notte l'avrebbe nuovamente conosciuta.
     E fu così che la "cosa" incominciò la sua storia. Ben presto fu anche chiaro che "la cosa" andava mangiata cotta, perché cruda era ed è tuttora pessima tant'è vero che la chiamano "colla di farina", il che dice tutto.


[1] Giobbe Covatta - "Dio li fa e poi l'accoppa" - Mondadori Editore - Milano (1998)

giovedì 25 ottobre 2012

Il tempo e il ragù


« Il tempo infatti trasforma la natura del mondo, ed è legge che una nuova condizione s'avvicendi sempre alla precedente [...] tutto si trasforma, la natura costringe ogni cosa a modificarsi e a mutare. Così dunque il tempo modifica la natura del mondo e la terra passa da uno stato all'altro, impotente a produrre ciò che prima poteva, ma capace di creare quel che prima non poteva. » ( Lucrezio - De Rerum Natura, libro V, versi 828- 836 passim).


Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. L'essenza stessa del tempo conduce alla distinzione tra passato, presente e futuro, e tale distinzione si rende evidente dal trasformarsi delle cose.


Il tempo non è come lo svolgersi di un film, dove è possibile rallentare lo scorrere delle immagini, fermare un'inquadratura o rivedere le scene all'indietro, il tempo punta inesorabilmente in avanti verso una trasformazione irreversibile delle cose, che può evolvere in qualcosa che prima non sarebbe stato possibile ottenere.
La materia è, esiste e contemporaneamente muta, si trasforma, ma questa costatazione, apparentemente ovvia, possiede in sé una contraddizione, in quanto l'essenza di un oggetto è garantita dal suo rimanere uguale nel tempo, il divenire, invece, presuppone la trasformazione, ovvero la diversità, per cui esiste un "prima" e un "dopo", cioè un "intervallo" di tempo. 
Passando dalle altezze di una considerazione filosofica, alle terrestri considerazioni culinarie,  prendiamo, casualmente, dei buoni ritagli di carne, della cipolla, del pomodoro, dell'olio eccellente e mescoliamoli insieme; quello che otteniamo è qualcosa che, neppure attraverso la più brillante o distorta fantasia, può paragonarsi a quello che diventerà il Ragù.
Ma se ai precedenti ingredienti aggiungiamo quello più importante, il tempo, allora, quell'accozzaglia di componenti, diventa la somma costruzione del Ragù, un rituale nel quale la semplice costruzione di un cibo si trasforma nella cattedrale della religione dedicata al tempo. 
Certo tutti cibi cucinati hanno bisogno di un tempo di cottura, ma per il ragù il tempo travalica il concetto di "quanto basta" e si prolunga verso una dimensione della durata che giunge fino alla memoria storica della cucina napoletana fondendosi con il robusto sapore della tradizione.
Per ottenere un buon ragù la cottura, dolcissima e lentissima, deve durare ore, durante le quali gli ingredienti cessano di essere quello che erano prima, trasformandosi in una nuova, unica sublime sostanza.
Il ragù quindi non è un cibo per il corpo, ma un nutrimento dell'anima, che coinvolge in tutte le fasi della preparazione, e ad esso va, necessariamente, dedicata l'attenzione che merita.

Eduardo De Filippo nella commedia "Sabato, domenica e lunedì", ufficia la liturgia della preparazione del ragù nei tre giorni dedicati alla celebrazione del rito: al primo giorno, sabato, si "stordisce" la carne per conservarne i preziosi succhi, il secondo giorno è dedicato alla preparazione, cottura e consumazione del "pranzo domenicale", mentre al terzo giorno vengono utilizzati gli avanzi della domenica per compiere fino all'ultimo il sacrificio.
Quindi un rito idolatrico che viene ufficiato da ogni famiglia napoletana esagerandone spesso la parte dedicata al tempo: sei ore, otto ore, no, dieci ore...
Come sottolinea Raffaele Bracale, dotto conoscitore della cucina napoletana e fervente custode della sua tradizione: "il ragù napoletano è molto diverso da tutti gli altri ragù di carne, pure ottimi, di cui è ricca la cucina italiana. E' diverso per gli ingredienti, per la lunga preparazione, per l’estrema attenzione che richiede, [...] ed infine per l’aroma che purtroppo sempre piú raramente si diffonde, il sabato sera, nelle scale dei palazzi di Napoli, dove ahimè sono giunti gli anatemi di tutti i nutrizionisti mediatici che hanno convinto anche i poveri napoletani a bandire dal loro desco domenicale questa sontuosa salsa per sostituirla con insipide salsine bollite, senza nerbo e/o gusto, insipide e prive di grassi animali, salsine che mai e poi mai possono convolare a felici nozze sulla tavola domenicale con i tronfi maccarune ‘e zite spezzati a mano o, meglio ancora, con duttili pacchere magari ‘mbuttunate!
Fortunatamente ci sono ancora dei napoletani d’antan, che – come carbonari o cospiratori del tempo andato continuano a parlare e talvolta a preparare mitici ragú come il Cielo comanda!"
E ancora, leggendo Giovanni Artieri, il ragù è: "una distillazione del lacerto di sfilatura di annecchia (la parte morbida e succosa del lombo di vitella di un anno di età) d'una fluida entità gustativa, non definibile né come salsa, né come estratto: un nepente [1] in cui viene distrutta la morbida natura del pomodoro, sia la crudezza vitale del muscolo sanguigno, sia l'ovvio sentore del soffritto basilico di timida cipolla. Il ragù descrive le virtù del fuoco lento, della pazienza umana (e perciò se ne devolve il compito al capo famiglia, in grado di accettarlo), della sensibile dosatura dei gusti e dei tempi"
Giovanni Artieri - Lo Stivale allo spiedo - Canesi Editore.

Ragù napoletano

[1] - bevanda che, nella mitologia greca, attenuava i dolori fisici e faceva dimenticare le sofferenze spirituali

lunedì 16 aprile 2012

La (Ri)scoperta delle "Torzelle"

Sui banchetti della CIA o della Confagricoltura si trovano spesso ortaggi di quelli “dimenticati”, come la torzella.

 

       La torzella è uno dei più antichi tipi di cavolo che si sono sviluppati nel bacino del mediterraneo, infatti è detta anche “cavolo greco”, oltre che “torza riccia”. Oggi è una pianta presente soprattutto nella zona dell’Acerrano Nolano, in provincia di Napoli. 
Del recupero della torzella, se ne è occupato il Programma per il recupero e valorizzazione del germoplasma orticolo campano dal 2004. Nel 2006 si è riusciti ad ottenere la stabilità della varietà di questo prodotto campano molto peculiare che così, da più vecchio cavolo del Mediterraneo, è entrati di diritto nell'elenco dei prodotti tipici  agroalimentari della Campania.
I germogli vengono raccolti per essere consumati sia allo stato fresco che cucinati in appetitose preparazioni della cucina tradizionale, e non, napoletana. 
La torzella presenta foglie carnose, ricce, di colore verde scuro ed è molto resistente al freddo; possiede grandi capacità nutritive ed un sapore buonissimo.
Una porzione di torzelle copre il fabbisogno giornaliero di vitamine A e C di un adulto, il 13% di calcio e un buon apporto di potassio ed enzimi digestivi; ricchissima di antiossidanti e di glucosinolati, la torzelle, come tutte le crucifere, svolge una importante e valida azione preventiva anticancro.
Qualche spunto per assaggiarle

Torzelle con olive capperi e pinoli

Minestra di torzelle all'olio

mercoledì 11 aprile 2012

La razza del "monatto"

     Qualche anno fa, insofferente al traffico, allo smog e alla convivenza con una città che mi è diventata pesante da sopportare, ho preso la decisione di trasferirmi a Bacoli, un piccolo centro sul mare ad una ventina di chilometri da Napoli, in cerca di distensione e di ritmi di vita più naturali, dei quali sentivo la necessità.
     Bacoli, insieme a Pozzuoli, occupa buona parte dei Campi Flegrei, i Campi Ardenti, dove i nostri antenati greci avevano collocato l'accesso agli inferi, per cui la zona è ricchissima di storie e leggende e soprattutto di siti archeologici.
     La cittadina è caratterizzata dalla presenza di Capo Miseno, il promontorio che chiude la omonima baia in cui era stanziata la flotta navale romana comandata da Plinio il Vecchio (il quale corse a portare aiuto alle città di Pompei ed Ercolano, colpite dalla disastrosa eruzione del Vesuvio del 24 ottobre (non più agosto come si pensava) del  79 DC, e vi trovò la morte per asfissia).
     Da qualche mese, alla nostra porta, verso le otto del mattino, bussa un pescivendolo che vende la sua merce con un furgone; lo chiamo il “monatto”, a causa delle frequenti "sviste" sulla freschezza del pesce che ci propone.
     Una volta regolato e messo a punto il rapporto col "monatto", c’è la possibilità di mangiare del pesce fresco e spesso “diverso” da quello che si trova sui banchi delle pescherie tradizionali.
     La settimana scorsa mi convinse a prendere, per 30€, una razza chiodata da un chilo e mezzo, freschissima, e quattro murene intorno al chilo l’una, ancora vive ed aggressive, alle quali mi sono ben guardato di dare loro confidenza se non dopo averle lasciate per qualche ora nel freezer.
     Archiviato facilmente il problema di come cucinare le murene, in genere fritte o in umido, restava insoluto quello della cottura della razza, un pesce non troppo praticato nella letteratura culinaria in mio possesso.
    Ho però casualmente trovato una vecchia preparazione descritta dal prof. Giorgio Bini, gastronomo e  ittiologo di fama internazionale, autore di numerosi libri sulle specie marine dei nostri mari, una ricetta, rispolverata della tradizione romana, che mi ha attratto per la tipicità degli ingredienti.


Pasta e broccoli col brodo di arzilla


     Arzilla si chiama a Roma, e in generale nel Lazio, la razza. La migliore è quella chiodata (Raja clavata), ma può andare bene la “quattrocchi” o la bianca, purché fresca (le razze tendono ad assumere uno sgradevole odore di ammoniaca se non sono fresche), della razza sono commestibili solo le "ali" ed il fegato.
     La razza è un pesce cartilaginoso quindi le “lische” si dissolvono con una prolungata cottura e danno una ricca consistenza al brodo.


     Procuriamoci quindi, per 5-6 persone:

  • una razza chiodata da 1 chilo e mezzo, 
  • qualche spicchio di aglio, 
  • un paio di acciughe sotto sale, 
  • prezzemolo abbondante, 
  • concentrato o passata di pomodoro, 
  • ½ kg di broccolo romano (o barese)
  • 300 gr di pasta lunga (trenette, vermicelli, fettuccine), rigorosamente spezzata a mano
  • olio, sale e pepe.
Preparazione un po' lunga ma ne vale la pena

  1. Mettiamo quindi la razza, pulita, privata della coda e divisa in 3-4 parti in una pentola, con acqua bastante a coprirla o poco più, insieme a 3-4 spicchi di aglio sbucciato. Portiamo a bollore e lasciamola lì per un paio d’ore.
  2. Quando il brodo è quasi pronto, laviamo le acciughe, le dilischiamo e le schiacciamo nel mortaio col prezzemolo, fino a formare una pasta omogenea.
  3. Prendiamo quindi una pentola capace (che dovrà contenere i broccoli, il brodo e la pasta), scaldiamo un po’ d’olio e facciamo soffriggere leggermente 2 spicchi di aglio schiacciati e del peperoncino.
  4. Ad aglio biondo, lo leviamo, aggiungiamo la pasta di acciuga e prezzemolo e lasciamo insaporire a fuoco bassissimo per non rendere amarognola l’acciuga.
  5. Togliamo il peperoncino e uniamo il concentrato di pomodoro (1-2 cucchiai) diluito in poca acqua, oppure 100-150 cc di passata di pomodoro e facciamo andare per qualche minuto.
  6. Aggiungiamo le cimette dei broccoli e facciamole cuocere al dente.
  7. A questo punto andrebbe utilizzato il solo brodo di razza, filtrato, ma poiché il profumo di mare era intenso, mi sono chiesto se non valesse la pena di salvare anche la carne della razza, se non fosse stato troppo complicato. Fortunatamente la razza può essere pulita facilmente, ma pazientemente, levando la pelle (dura e abrasiva) e le cartilagini interne.
  8. Ottenuta quindi la carne, tra l’altro di ottimo sapore, anche se la consistenza e l’aspetto non sono troppo invoglianti, l’ho inserita nel frullatore insieme al brodo filtrato, ottenendo una crema liquida che ho versato nella pentola dei broccoli.
  9. Una volta recuperato il bollore, uniamo la pasta e cuociamo al dente. Saliamo pepiamo e serviamo in piatti fondi.
Foto di provenienza web
     
Ci abbino una Falanghina dei Campi Flegrei fredda al punto giusto per completare l’opera.

La ricetta, apparentemente laboriosa, è in realtà molto semplice ed il gusto è eccezionale, contemporaneamente delicato e consistente, perché si abbinano sapientemente i profumi della terra e quelli del mare, per un risultato che va oltre le normali aspettative e ripropone l’uso di prodotti poveri e trascurati, come la razza, ma di grande e originale gusto. Due considerazioni:
  1. in molte ricette, il brodo di razza viene ottenuto facendo bollire, insieme al pesce, anche il classico mix di carota, sedano e cipolla. Nulla questio, il brodo si insaporisce, ma, a mio parere, perde di freschezza e il gusto di mare si disperde coperto da sapori più forti;
  2. molti utilizzano solo il brodo di razza, altri uniscono al brodo la carne sfilettata da aggiungere alla minestra.
     Preferisco la seconda soluzione perché l'abbinamento del gusto terricolo dei broccoli e quello marino del pesce regala un'ampiezza di aromi che non si raggiungerebbe con la prima soluzione, se poi il brodo e il pesce vengono frullati insieme, la minestra diventa più cremosa e consistente senza perdere di profumo.


venerdì 6 aprile 2012

La zuppa di cozze del Giovedì Santo


     Avevo 13 anni quando misi per la prima volta gli occhiali. Era il giovedì santo di molti anni fa e l’ottico Gaipa in via Carlo De Cesare, mi consegnò un fiammante paio di occhiali dalla elegantissima montatura color grigio acciaio, oggi si direbbe da nerd, secchione, attribuzione assolutamente falsa per quanto mi riguardava, perché era solo la moda del 1958.
Il giovedì santo vi è, allora come adesso, la tradizione di fare i “sepolcri”, cioè rendere omaggio alla Eucarestia, allestita nelle varie chiese. 
Nel tardo pomeriggio c’era stata la celebrazione della Messa in “Cena Domini”, cioè la Cena del Signore - l’"Ultima Cena" che Gesù tenne insieme ai suoi Apostoli - dopo la quale si ritirò nell'Orto degli Ulivi.
     Comincia così la "Passione" che la Chiesa ricorda il Venerdì Santo; i riti liturgici del Giovedì Santo si concludono con la reposizione dell’Eucaristia in un cappella laterale delle chiese, addobbata a festa per ricordare l’Istituzione del Sacramento; tutto il resto del tempio viene oscurato, in segno di dolore perché è iniziata la Passione di Gesù; le campane tacciono, l’altare è disadorno, il tabernacolo vuoto con la porticina aperta, i Crocifissi coperti.
La tradizione prescrive che i sepolcri debbano essere di numero dispari e non meno di tre.
Così ci si dava appuntamento in via Toledo, angolo via Carlo De Cesare, ci si intruppava in due o più famiglie, capogruppo zio Gigino, e si cominciava lo “struscio”, il passeggio sulle strade prive di traffico automobilistico, dove si faceva sfoggio, ai primi tepori della primavera, dei primi abiti leggeri. Il tragitto era sempre lo stesso anno dopo anno: la chiesa di San Francesco di Paola in piazza del Plebiscito, quella di San Ferdinando e poi quella di Santa Brigida.
Da buoni napoletani, nel nostro cuore è consolidata una pacifica convivenza tra il sacro ed il profano, con una leggera prevalenza di quest'ultimo, pertanto, espletate le formalità del rito dei sepolcri col minimo sindacale di tre, la seconda parte della serata si prospettava decisamente più divertente.
Da piazzetta Augusteo, la Funicolare Centrale ci portava al Vomero e raggiungevamo la vicina pizzeria Gorizia in via Bernini dove finalmente si poteva mangiare la tipica cena del Giovedì Santo: Zuppa di cozze piccante con polpetielli e maruzzielli (lumachine).
La tradizione andava rispettata ed ogni anno il rituale si ripeteva identico a se stesso: struscio, sepolcri e cozze. Non si transigeva; al più, per noi giovani, era concessa la pizza per dare supporto alla fame che, come da tradizione, stazionava in permanenza. Ma per il resto era rigorosa tradizione.

Per la ricetta della zuppa di cozze, potete provare questa, lunga ma ne vale la pena.

Zuppa di cozze del giovedì santo


Per 4-5 persone regolatevi con:
  • 1 polpo verace da 1 chilo e mezzo circa, 
  • 1,5-2 kg di cozze, 
  • 300-400 gr di maruzzielli (lumachine di mare), 
  • olio piccante di peperoni (300-500 grammi), 
  • una-due "freselle(fette di pane biscottato) a testa , 
  • aglio e peperoncino quanto vi piace.
  1. Lessate il polpo per una trentina di minuti, scolatelo, tagliatelo a pezzetti e tenetelo da parte. Non buttate l’acqua.
  2. Fate aprire velocemente le cozze in una pentola col coperchio (devono rimanere morbide), sgusciatene una parte, le altre le lascerete intere e tenetele da parte. Non buttate l’acqua.
  3. Fate soffriggere in un tegame uno spicchio d’aglio e un peperoncino tagliato a pezzetti, toglieteli quando l'aglio è biondo, e aggiungete le lumachine che avrete lasciato spurgare in acqua per qualche ora, cambiando spesso l’acqua. Fate cuocere per qualche minuto e aggiungete del prezzemolo tritato.
  4. A questo punto unite l’acqua del polpo e quella delle cozze insieme, dopo averle filtrate e mettetela a bollire.
  5. Sul fondo di una larga ciotola poggiate le freselle, bagnate con un bel mestolo o più dell’acqua bollente del polpo e cozze, aggiungete le cozze, sgusciate e no, le lumachine, il polpo e infine irrorate il tutto con abbondante olio piccante di peperoni ('o russ').
Il tutto deve avvenire velocemente e possibilmente vicino al tavolo dove si mangerà, perché non si disperdano i profumi di un piatto che va gustato in religiosa concentrazione.
Da bere: Birra o un vino rosso di medio corpo come 'o Per' e Palummo (Piedirosso d'Ischia o dei Campi Flegrei).


Noterelle a margine

  • Il pomodoro, in ogni sua forma, non è ammesso, anche se la maggior parte delle ricette che si trovano in giro ne fanno uso, ma la tradizione prescrive che il "rosso" venga dato solo dalla salsa piccante di peperoni.
  • Optional: una spolverata di bottarga di muggine e qualche fogliolina di maggiorana fresca, inseriscono un diversivo di grande aroma e intensità (da provare).
  • Un consiglio: poiché la porzione fornisce oltre 500 kcal, ed è sbilanciata perché priva di verdure, il piatto andrebbe accostato a delle verdure e della frutta fresca e basta.
  • In alcune preparazioni "da ristorante", il piatto viene arricchito con vongole, fasolari e scampi e quindi diventa sontuoso da vedere, ma è una licenza poco ortodossa, dedicata ai turisti, che fa perdere la tipicità e semplicità del piatto, che è buonissimo così com'è.

Olio piccante di peperoni


Occorre acquistare la conserva piccante di peperoni.
Un buon dosaggio prevede 3 bei spicchi di aglio, 1/2 litro di olio extravergine, e 150-200 gr di concentrato di peperoni.
  1. Fate soffriggere a fuoco bassissimo l'aglio schiacciato o tagliato a lamelle sottili, aggiungete il concentrato di peperoni e cuocete sempre a fuoco bassissimo per 40-50 minuti, rimestando continuamente per evitare che il composto si attacchi al fondo. Attenzione, i vapori sono irritanti per gli occhi.
  2. Quando l'olio salirà tutto a galla e avrà un bel colore rosso ambrato, spegnete il fuoco e lasciate raffreddare, poi filtrate con un canovaccio bianco pulitissimo e imbottigliate. 

Si mantiene per mesi per cui vale la pena di prepararlo in abbondanza (2-3 litri alla volta) per utilizzarlo all'occorrenza anche sulla pasta e fagioli e dove vi sembra che possa andare.